Il risarcimento del danno “comunitario” per abuso nell’utilizzo dei contratti a termine nel settore pubblico (tenuto conto della nuova normativa anti-infrazione di cui al D.L. n. 131/2014)

Corte di Appello di Bologna, sentenza 13 dicembre 2024 – Rel. Pascarelli

di Sergio Galleano

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Sui contratti a termine nel pubblico impiego
Nell’ordinamento italiano le tutele contro gli abusi nell’utilizzo dei contratti a termine, nel settore privato, sono state introdotte con la Legge n. 230/1962 che prevedeva il loro utilizzo solo in presenza di “ragioni oggettive”, ovvero esigenze legate a specifiche esigenze aziendali, di norma temporanee e provvisorie. In assenza di ragioni di tal tipo, il contratto si intendeva ad origine stipulato a tempo indeterminato.
Nessuna tutela, invece, per i dipendenti pubblici (i più anziani ricorderanno i lavoratori “trimestrali” che popolavano gli uffici delle pubbliche amministrazioni, integrando il personale necessario degli uffici pubblici) e ciò in ragione del fatto che l’accesso al pubblico impiego è possibile solo attraverso il concorso (art. 97 Cost.). Un caso singolare, in cui una norma costituzionale è stata per anni utilizzata per giustificare un abuso reiterato e “legittimare” lo stato di precarietà dei lavoratori, spesso anche per decenni.
Solo nel 1993, con il D.Lgs. n. 29, art. 36, viene stabilito che l’eventuale utilizzo di personale attraverso contratti flessibili in violazione di norme imperative, oltre che non dare diritto alla costituzione di rapporti a tempo indeterminato, comportava anche il diritto al risarcimento del danno. A parte la difficoltà di individuare quali fossero le norme imperative violate, la natura e la misura di tale risarcimento rimaneva comunque indefinita, sicché la norma si rivelava una mera petizione di principio senza concrete conseguenze per i lavoratori (visto che avevano lavorato ed erano stati pagati).

La Direttiva 1999/70
Nel frattempo, veniva approvata in sede comunitaria la Direttiva 1999/70 che recepiva l’accordo quadro del 18 marzo 1999 che conteneva la clausola 5, secondo la quale gli stati membri avrebbero dovuto prevedere una o più misure preventive relative: a) ragioni giustificative per l’apposizione del termine ai contratti di lavoro, b) durata massima totale dei rinnovi dei contratti e c) numero massimo dei contratti stipulabili, La clausola, inoltre, in caso di assenza di misure equivalenti, prevedeva l’adozione di misure c.d. “sanzionatorie” in caso di abusi, ovvero: a) a quali condizioni i contratti a termine devono essere considerati successivi e b) in che termini, in conseguenza dell’abuso, debbono essere considerati a tempo indeterminato.

Il recepimento della Direttiva e il pubblico impiego
La Direttiva veniva recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 368/2001 che attuava tutte le indicazioni del legislatore europeo, anche per quanto riguarda la misura massima dei contratti successivamente inserita nel 2007, con il comma 4-bis dell’art. 5, nella misura di tre anni, decorsi i quali il rapporto si trasformava a tempo indeterminato.
Ciò non avveniva però per il pubblico impiego, la cui normativa rimaneva ancorata al citato art. 36 D.Lgs. n. 29/1993, poi sostanzialmente riprodotto, sul punto, dall’art. 36 del successivo D.Lgs. n. 165/2001.
Il principio dell’accesso all’impiego pubblico tramite concorso veniva tenacemente difeso dalla giurisprudenza costituzionale, nonostante tutti i tentativi di evidenziare la palese contraddittorietà della normativa nazionale con quella eurounitaria (v. sul punto, la sentenza della Corte costituzionale n. 89/2003 che si pronunciava su rimessione del Tribunale di Pisa, dichiarando infondata la questione della possibile costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel pubblico impiego, su cui P. Chieco, I contratti «flessibili» della p.a. e l’inapplicabilità della sanzione ordinaria della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 89/2003 della Corte costituzionale, in Lav. pubb. amm., 2003, 3-4, 489).
Anche la Cassazione, per anni, è rimasta impermeabile sulla questione (vedi la nota sentenza 392 del 2012, su cui: S. Ciucciovino, L’idoneità dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 a prevenire l’abuso del contratto a termine da parte della pubblica amministrazione, in Riv. it. dir. lav., 2012, 1, 144).

Gli interventi della Corte di giustizia
Ma la questione era ormai matura per un cambio di passo.
Il 7 settembre 2006, infatti, la Corte di giustizia si era pronunciata sulla questione di pregiudizialità sollevata dal Tribunale di Genova con la sentenza Marrosu e Sardino del 7.9.2006 (C-53/04 su Riv. it. dir. lav., 2006, 4, II, 714 con nota di Nannipieri), con la quale dichiarava l’incompatibilità della disciplina di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, che vieta la conversione dei rapporti e non contiene adeguate misure alternative con la clausola 5 della Direttiva, in assenza di adeguate misure alternative.
A questa pronuncia ne sono seguite altre, tra le quali ci limitiamo a ricordare l’ordinanza Papalia del 12.12.2013 (C-50/13, su Riv. it. dir. lav., 214, 1, II, 75 con nota di Ales) e la nota Mascolo del 26.11.24 (C-22/13), resa sulla prima questione giudiziale effettuata dalla Corte costituzionale con ordinanza 207/2013 (F. Ghera, I precari della scuola tra Corte di giustizia, Corte costituzionale e giudici comuni, in Giur. cost., 2015, 1, 158). In queste sentenze si ribadiva la contrarietà della normativa nazionale con quella europea.

La soluzione della Cassazione e il “danno comunitario”
Con le spalle al muro per una procedura di infrazione ormai in corso da parte della Commissione europea, la Cassazione, a Sezioni unite, con sentenza n. 5072/2016 (S. Giubboni, Risarcimento del “danno comunitario” da abuso di contratti a termine nel pubblico al vaglio delle S.U., in IUS Lavoro, 13 aprile 2016) ha allora “risolto”, due anni dopo, il contrasto tra le due giurisdizioni con un’intuizione che non può che definirsi un esempio di genialità. Ha infatti ribadito il divieto di conversione e ha “salvato” l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, ribadendo che l’abuso poteva venire sanato con il risarcimento del danno.
Dovendo però prendere atto che tale risarcimento è, sostanzialmente, una mera chimera, risultando di fatto impossibile per il lavoratore dimostrare la perdita di chances e il conseguente danno per avere perso la possibilità di altri lavori, ha dovuto trovare una soluzione.
Ha così individuato nella norma di cui all’art. 32 del D.Lgs. n. 165/2001 (che riguarda il risarcimento forfettizzato, da 2,5 a 12 mensilità, dovuto al lavoratore nel periodo tra la cessazione del contratto a termine illegittimo e la ricostituzione del rapporto nel settore privato e, dunque non ha una connessione diretta con la “perdita” del posto di lavoro, cui il dipendente pubblico non può aspirare se non attraverso il concorso), la misura che viene esentata dall’onere della (impossibile) prova da parte del lavoratore.
Questa articolata, quanto ardita costruzione viene giustificata con la necessità di adeguare l’ordinamento nazionale con quello comunitario. La soluzione troverà un avallo provvisorio, come vedremo, con la sentenza Santoro della Corte di giustizia del 7.3.2018, C-494/16 (F. Siotto, La via giurisprudenziale europea per la tutela risarcitoria dei precari pubblici, in Riv. it. dir. lav., 2018, 3, 693).

I successivi sviluppi giurisprudenziali del “danno comunitario”
A seguito della pronuncia delle Sezioni Unite, viene così sbloccato il contenzioso sui precari scolatici (all’uopo arrestato dopo la sentenza Mascolo presso tutti i Tribunali, le Corti di Appello e, ovviamente la Suprema Corte) e la Sezione Lavoro della Cassazione, pochi mesi dopo, si pronuncia nel novembre del 2016 con le sentenze nn. 22552-22558, con le quali applicava il risarcimento del danno nei confronti di tutti i lavoratori della scuola che non erano stati nel frattempo stabilizzati.
La scelta è stata infatti di natura politica.
Al fine di ridimensionare i danni all’erario dei risarcimenti, considerato l’alto numero di precari nella pubblica amministrazione, la Corte ha infatti stabilito che la stabilizzazione nel frattempo intervenuta “assorbe” il danno causato dall’avvenuta precarizzazione, indipendentemente dalla durata dello stesso, che incide, semmai, solo sulla quantificazione delle mensilità spettanti.
Il danno, così, quantificato può poi essere liquidato una volta sola nella vita lavorativa (Cass. n. 31174/2018) ed è soggetto alla prescrizione quinquennale (Cass. n. 15352/2020). Inoltre, i singoli contratti debbono essere impugnati entro il termine di 60 giorni ex art. 32 L. n. 183/2010, salvo (Cass. n. 4690/2023) che il lavoratore non dimostri che i rapporti successivi al primo costituiscono semplici rinnovi del contratto (si pensi, ad esempio, al caso degli insegnanti che vengono assunti per il solo periodo scolastico, ossia da ottobre a giugno e che, dunque, sarebbero tenuti ad impugnare tutti i relativi contratti).
Insomma, una serie di soluzioni “politiche” finalizzate a contenere i risarcimenti che avrebbero potuto pesare sul bilancio pubblico.
Infatti, la tesi dell’assorbimento del danno a seguito della stabilizzazione, inizialmente resa con il riferimento al settore scolastico, dove l’accesso avveniva attraverso lo scorrimento delle c.d. GAE (graduatorie ad esaurimento), è poi stato applicato a tutti i settori della pubblica amministrazione.
Atteso il possibile contrasto con la Direttiva, su iniziativa della Corte di Appello di Trento, è così intervenuta la Corte di giustizia che, con l’ennesima sentenza, Rossato dell’8.5.2019 (C-494/17), ha stabilito la legittimità del detto assorbimento del danno in caso di stabilizzazione “allorché una siffatta trasformazione non è né incerta, né imprevedibile, né aleatoria e la limitazione del riconoscimento dell’anzianità maturata in forza della suddetta successione di contratti di lavoro a tempo determinato costituisce una misura proporzionata per sanzionare tale abuso, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare”.
Ciò ha portato ad una modifica della giurisprudenza della Corte di cassazione che ha quindi ristretto le ipotesi di assorbimento del risarcimento nelle sole ipotesi di stabilizzazione “diretta”, come appunto quelle conseguenti allo scorrimento delle citate GAE o nell’ipotesi di stabilizzazione ex art. 20, comma 1 della Legge Madia (ovvero di coloro che già avevano superato una procedura concorsuale).
Non si ravvisa quindi, allo stato, la possibilità di assorbimento in tutte le altre ipotesi, ivi compresa quella in cui la stessa avvenga con uno specifico concorso riservato ai lavoratori precari in servizio preso l’ente interessato, non dando la procedura concorsuale la certezza automatica del buon esito della procedura (sul punto v. S. Galleano, Cass. 13424 e 13686 del 2024: ancora sull’abuso di contratti a termine, sul risarcimento del danno e il suo venir meno in caso di stabilizzazione da parte della pubblica amministrazione, in Labor, 17.07.24).

La sentenza in commento
Venendo quindi alla sentenza della Corte di Appello di Bologna, la stessa si pronuncia, in sede di rinvio da parte della Cassazione, sul diritto al risarcimento del danno di una lavoratrice abusata dal Comune di Bologna dove aveva operato come insegnante nelle scuole comunali per diversi anni e aveva poi trovato sistemazione stabile presso un altro comune, non essendo riuscita a collocarsi utilmente in graduatoria in un concorso indetto dal Comune di Bologna.
Ha quindi agito nei confronti del Comune di Bologna per ottenere il risarcimento del danno subito per la reiterazione dei contratti.
Sia il Tribunale che la Corte di Bologna avevano rigettato la domanda, accogliendo l’eccezione del Comune che la partecipazione al concorso, poi non superato, costituiva una chance di assunzione messa a disposizione della lavoratrice che, per sua colpa non aveva poi superato. Essendosi quindi attivato il Comune per il consolidamento del rapporto, il danno doveva considerarsi assorbito.
La Cassazione, adita dalla lavoratrice, con l’ordinanza n. 10453/2024, ha cassato la sentenza del secondo giudice argomentando che “l’efficacia sanante dell’assunzione in ruolo presuppone, infatti, che l’assunzione sia avvenuta ed una “stretta correlazione” fra abuso del contratto a termine e procedura di stabilizzazione (Cass. nn. 6935, 7060, 7061, 29779/2018), sia sotto il profilo soggettivo – nel senso che entrambe devono provenire dal medesimo ente pubblico datore di lavoro (Cass. n. 7982/2018) – sia sotto il profilo oggettivo, nel senso della esistenza di un rapporto di “causa-effetto” tra abuso ed assunzione (Cass. n. 15353/2020)”.
La Corte bolognese, in sede di rinvio ha quindi preso atto della decisione del giudice di legittimità e ha riformato l’originaria sentenza di primo grado condannando il Comune a risarcire nella misura di nove mensilità, tenuto conto del non lungo periodo di abuso subito dalla lavoratrice.
Il secondo aspetto che merita un cenno è che la sentenza, su richiesta della lavoratrice, dichiara anche di applicare al risarcimento lo ius superveniens, costituito dall’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dall’articolo 12, comma 1, del D.L. 16 settembre 2024, n. 131, convertito con modificazioni dalla Legge 14 novembre 2024, n. 166 che, al fine di ovviare all’apertura della procedura d’infrazione n. 2014/4231 promossa dalla Commissione europea in tema di violazione della clausola 5 della Direttiva 1999/70, ha aumentato la misura del “danno comunitario” da 4 a 24 mensilità.
L’applicazione dello ius supeveniens è pacifica in giurisprudenza (Corte di cassazione, Sez. III civile, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2774) e in dottrina (R. Caponi, In tema di ius superveniens sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali, in Il Foro it., 1992, 132), anche nel giudizio di rinvio, a condizione che la nuova normativa sia pertinente alla domanda svolta in giudizio.
Il che ricorreva nel caso specifico.