Tempo di vestizione e programmazione dei turni part-time: riflessioni sul tempo di lavoro

Corte d’Appello di Milano, Sez. Lav., sentenza 27 novembre 2024, n. 514 – Pres. e Rel. Vignati

di Filippo Capurro

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La recente sentenza della Corte d’Appello di Milano 27 novembre 2024, n. 514 affronta due importanti questioni sui tempi di lavoro: il riconoscimento del tempo di vestizione quale attività retribuita e l’omesso accordo sui turni lavorativi nel rapporto a tempo parziale.

1. Tempo tuta: tra eterodirezione e dignità personale

La Corte rileva che, nella vicenda di causa, è risultato che la generalità dei dipendenti si orientava di fatto per non arrivare sul luogo delle prestazioni abbigliati con vestiti “da lavoro”, essendo invece adusa a cambiarsi nei locali spogliatoio e solo, a quel punto, accedere il marcatempo immediatamente prima di iniziare le attività di servizio.

Tuttavia, al di là del fatto che questa fosse o meno un’abitudine volontaria, la Corte afferma che il tempo impiegato dai lavoratori per indossare e togliere la divisa, può configurarsi come tempo di lavoro retribuito, indipendentemente dal luogo dove esso può o deve avvenire, quando l’uso della divisa è imposto per ragioni di riconoscibilità, igiene, sicurezza o funzionalità.

Gli snodi di interesse della pronuncia passano per i concetti di eterodirezione implicita e di normalità sociale.

Quanto al primo aspetto viene evidenziato che, anche in assenza di specifiche direttive datoriali, la natura stessa della divisa (es. tute tecniche o abbigliamento non adatto all’uso quotidiano), quale strumentale allo svolgimento dell’attività lavorativa, giustifica il riconoscimento del tempo di vestizione come parte integrante della prestazione lavorativa.

Quanto alla normalità sociale, la Corte sottolinea l’importanza del diritto del lavoratore a scegliere abiti civili durante il tragitto casa-lavoro, per ragioni di decoro, igiene e libertà personale.

In particolar modo, la Corte tiene conto, nel caso di specie, della stretta funzionalità o strumentalità delle casacche e delle tute da lavoro al tipo di operazioni pratiche oggetto della mansione (nella specie pulizie).

Altresì, considera l’esigenza di dover diligentemente adoperare gli indumenti in vista del loro impiego strettamente lavorativo e del successivo reimpiego una volta terminato il servizio, come pure della cornice di igiene fondamentalmente alla base delle operazioni di vestizione, svestizione e utilizzo pratico di quegli indumenti.

Aspetto di interesse è altresì quello relativo al fatto che non sarebbe stata comunque consona rispetto alle libere determinazioni soggettive del personale, l’imposizione ai singoli di un accesso al luogo di servizio già immediatamente vestiti per l’espletamento dei compiti di pulizia.

Sul punto si veda Cass. 05/12/2023 n. 33937 che ha coltivato una nozione ampia di eterodirezione, che può discendere, oltre che dall’esplicita disciplina d’impresa anche “implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.

In particolare possono determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro”

E così Cass. 20/10/2022 n. 30958, Cass. 07/05/2020 n. 8627, Cass. 28/03/2018.

In questi casi, il tempo impiegato per indossare o togliere la divisa è considerato parte integrante della prestazione lavorativa e deve essere retribuito.

Del resto, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria sull’orario di lavoro di cui alla Direttiva n. 2003/88/CE, il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro e l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti (C. giust. UE 10 settembre 2015 in C-266/14).

Si è perso nelle argomentazioni del secondo grado, un passaggio di grande interesse che era invece contenuto in quella di primo grado (Trib. Milano 04/07/2023 est. Lombardi).

Mi riferisco alla considerazione per la quale la libertà del lavoratore di indossare la divisa anche fuori dal luogo di lavoro, è comunque assorbita e sterilizzata dal diritto del lavoratore di indossare al di fuori del luogo di lavoro gli abiti che desidera, argomento correlato alla dignità personale.

Si leggeva nella pronuncia:

“(…) Né, ad avviso del giudicante, può ritenersi rilevante, ai fini dell’elisione dell’obbligo retributivo per il periodo corrispondente allo svolgimento di tali attività preparatorie, la circostanza che il lavoratore possa ritenersi libero di indossare la divisa a casa, o comunque, al di fuori dei locali aziendali, risultando tale soluzione nella sostanza contraria alla dignità dei lavoratori.

Deve, difatti, nel percorso dalla propria abitazione ai locali aziendali, affermarsi la piena prerogativa del lavoratore di indossare abiti civili, corrispondenti al proprio gusto individuale o alle proprie contingenti esigenze, quale espressione della propria personalità, che lo preservino dall’immediata identificazione in ragione della sua appartenenza lavorativa. Né, sotto altro profilo, può sottovalutarsi come l’ingresso e l’uscita del lavoratore dal luogo di lavoro con indosso gli abiti aziendali possa costituire una limitazione allo svolgimento di ulteriori attività di natura sociale o ricreativa, in assenza di preparazione presso i locali aziendali o facendo ritorno presso la propria abitazione.”.

Una tale impostazione ha evidenti implicazioni pratiche.

2. Programmazione dei turni part-time: tutela dei diritti e risarcimento del danno

Un altro aspetto significativo della decisione è il riconoscimento – in riforma della sentenza di primo grado – del risarcimento per l’omessa programmazione scritta dei turni lavorativi nel rapporto a tempo parziale.

L’art. 5, comma 2, stabilisce che “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.”.

A sua volta il comma 3 stabilisce che “Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.”.

La Corte d’Appello rileva che il contratto individuale di lavoro non contemplava programmaticamente né la dislocazione, né un calendario dei turni, né d’altra parte vi era la vigenza negoziale di clausole elastiche corredate da incrementi retributivi più favorevoli ai destinatari.

Non poteva del resto essere sufficiente a tal proposito il richiamo operato dal Tribunale ad un usuale turno mattutino – tra l’altro non rigorosamente circoscritto relativamente agli orari di inizio e di fine – in cui erano di fatto coinvolte le lavoratrici applicate alle pulizie commissionate.

Sul punto interessante è Cass. (ord.) 29/04/2024 n. 11333, che afferma come, con riferimento ai turni assegnati ai lavoratori part-time, le indicazioni di legge e di contratto possono ritenersi rispettatesolo quando – in mancanza di clausole flessibili elastiche – nel contratto di lavoro vengano indicati i turni in modo preciso e costante, in modo da rendere noto al lavoratore come verrà eseguita nel tempo la propria prestazione, senza che sia possibile per il datore di lavoro indicare i turni solo successivamente, in via periodica.

Infatti il terzo comma 3 dell’art. 5, sopra citato, necessita di un’interpretazione sistematica coerente con il secondo comma, nel senso della necessità che i turni di lavoro restino indicati per iscritto nel medesimo contratto, con specifica indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

Al contrario non sarebbe possibile sostenere che la possibilità di prevedere lo svolgimento dell’orario part-time in turni comporti anche la deroga alla puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro, che, comunque, la stessa legge vuole programmati per fasce prestabilite, come specificato nella norma. Una simile interpretazione – secondo la Suprema Corte – sarebbe illogica e in contrasto anche con la ratio protettiva del part-time: sarebbe, infatti, sufficiente articolare il lavoro in turni per superare l’esigenza di indicazione puntuale dell’orario di lavoro nel contratto. E ciò porterebbe a legittimare sostanzialmente la mancata indicazione di qualsiasi orario.

Vi è poi, nella sentenza della Suprema Corte, quella che pare un’interpretazione costituzionalmente orientata del comma 3. È infatti richiamata la pronuncia C. cost. 11 maggio 1992, n. 210.

Va detto che questa si era formata sull’art. 5, comma 2, D.L. n. 726/1984 – norma abrogata – che recitava “Il contratto di lavoro a tempo parziale deve stipularsi per iscritto. In esso devono essere indicate le mansioni e la distribuzione dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno (…)”.

In merito ad essa la Consulta aveva affermato che non vi è quindi alcuna ragione, né alcuna possibilità di attribuire alla normativa una interpretazione tale da consentire la pattuizione di contratti di lavoro a tempo parziale nei quali la collocazione temporale della prestazione lavorativa nell’ambito della giornata, della settimana, del mese e dell’anno non sia determinata o non sia resa determinabile in base a criteri oggettivi ma sia invece rimessa allo ius variandi del datore di lavoro”.

La disciplina del part-time è infatti finalizzata, secondo la Corte costituzionale, a garantire al lavoratore una duplice possibilità: sia di programmare e conciliare più lavori a orario ridotto, allo scopo di ottenere una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa e precostituire un’adeguata posizione pensionistica, ai sensi degli artt. 36 e 38 Cost., sia di conciliare li lavoro con la dimensione esistenziale extralavorativa, in modo da avere disponibilità del proprio tempo di vita.

Era pertanto da escludersi un’interpretazione della norma tale da consentire la pattuizione di contratti di lavoro a tempo parziale nei quali la collocazione temporale della prestazione lavorativa nell’ambito della giornata, della settimana, del mese e dell’anno non fosse determinata, o non sia resa determinabile, sulla base di criteri oggettivi ma sia invece rimessa allo jus variandi del datore di lavoro.

Mi sia consentito rinviare sulla questione al mio contributo: La collocazione dell’orario di lavoro del turnista nel rapporto di lavoro a tempo parziale: una storia infinita che attraversa le ere normative,in Labor-Il lavoro nel diritto.

Infine, quanto al danno, l’art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015 stabilisce che “Qualora nel contratto scritto non sia determinata la durata della prestazione lavorativa, su domanda del lavoratore è dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla pronuncia. Qualora l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice determina le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro.

Per il periodo antecedente alla pronuncia, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.”.

Rileva la Corte d’Appello che, tenuto conto che la determinazione del danno risarcibile, oltre che collegata dalla legge al solo fatto della violazione, sfugge alla regola dell’esistenza di particolari oneri dimostrativi influenti anche sull’entità del ristoro economico accordabile – come si esprime la norma “diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno”.

Sembra di comprendere peraltro che la prova di un danno particolare potrebbe giustificare una quantificazione in misura non equitativa.