Patto di “stabilità” e formazione come corrispettivo: recenti evidenze dai tribunali di merito
Tribunale di Milano, sentenza 27 giugno 2024, n. 3337 – Giud. Fumagalli
Tribunale di Roma, sentenza 9 febbraio 2024, n. 1646 – Giud. Antonioni
di Federico Avanzi
Premessa
Come noto, indirizzo consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. 25 luglio 2014, n. 17010) è che il prestatore subordinato possa liberalmente disporre della propria facoltà di recesso, come nell’ipotesi di allungamento concordato del preavviso contrattualmente previsto (Cfr. Cass. 6 agosto 2015, n. 16527) o, in alternativa, pattuendo con il datore di lavoro una garanzia di durata “minima” del rapporto in essere, dando in tal modo forma a un patto di c.d. “stabilità”.
Invero, riguardo a quest’ultimo, la Corte di cassazione ha nel tempo dissipato molti dei dubbi avvolgenti tale atipico accordo, non solo riconoscendone espressamente la meritevolezza dell’interesse datoriale sotteso ossia quello di assicurarsi, nella prospettiva del “programma” aziendale, la continuità della prestazione, a tal fine utile, di un certo dipendente (peraltro, non mancando di evidenziarne le analogie col contratto a tempo determinato. Cfr. Cass. 9 giugno 2017, n. 14457), ma anche avendo cura di smarcarlo dalla diversa fattispecie della “transazione”, non essendo nell’evenienza ravvisabile, fra le parti, alcuna res dubia da dirimere (Cfr. Cass. 7 settembre 2005, n. 17817).
Ma pure da ciò prescindendo, qualsiasi ulteriore eccezione fondata sulle prescrizioni di cui all’art. 2113 c.c. doveva, secondo il Collegio, cedere il passo alla constatazione che non contrasta con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico, la clausola che stabilisce, a carico del lavoratore, un obbligo risarcitorio in caso di dimissioni anticipate rispetto ad un periodo di durata “garantita”, né medesima pattuizione potrebbe rientrare in nessuna delle ipotesi di cui al comma 2, art. 1341 c.c., per le quali, espressamente, si richiede l’approvazione specifica per iscritto (Cfr. Cass. 19 agosto 2009, n. 18376); infatti, secondo l’avviso della Suprema Corte, l’interesse del prestatore subordinato alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra nell’area di sua libera disponibilità, come sarebbe pianamente desumibile dalla facoltà di recesso ad nutum di cui gode il medesimo, dall’ammissibilità di addivenire a risoluzioni consensuali del contratto e dal previsto consolidamento degli effetti del licenziamento, ancorché illegittimo, per mancanza di tempestiva impugnazione da sua parte (Cfr. Cass. 19 ottobre 2009, n. 22105).
Semmai, una condizione contrattuale di questo genere, più assimilabile al concetto di clausola penale ex art. 1382 c.c. e, come tale, soggetta al rimedio giudiziale della riduzione equitativa (Cfr. Cass. 25 luglio 2014 cit.), troverebbe una vera e propria caratterizzazione – o, potrebbe dirsi, “specialità” – nella definizione dell’equilibrio tra le prestazioni corrispettive oggetto dell’accordo raggiunto fra le parti.
Per vero, imponendosi sul generale principio di libera valutazione rimessa a ciascun contraente, la Corte di cassazione ne rilevava l’immediata incidenza dell’art. 36 Cost., evidenziando come “proporzionalità” e “sufficienza” del trattamento economico costituzionalmente prescritte, potessero, in specie, essere assicurate, solo in presenza di una specifica controprestazione convenuta a favore del lavoratore.
In definitiva, data per acquisita la già menzionata “utilità” datoriale, nell’equilibrio delle posizioni contrattuali, all’interno di una clausola di durata “minima”, il corrispettivo dovuto al dipendente doveva ritenersi, quale elemento costitutivo la fattispecie, assolutamente necessario: certamente, nella forma e con le modalità liberamente stabilite dalle parti, potendo il medesimo consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità, nella maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione anche “non monetaria”, ma sempre col limite della prestazione “non simbolica” e, comunque, proporzionata al sacrificio assunto dal prestatore subordinato (Cfr. Cass. 9 giugno 2017, n. 14457).
Trib. Milano 27 giugno 2024, n. 3337
Cosicché, è nel solco di queste coordinate che va, giocoforza, letta, una recente sentenza del Tribunale di Milano, nella quale il giudice del lavoro era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di una clausola – e delle conseguenti trattenute -, contenuta nel contratto di assunzione, di questo tenore: «Fatto salvo il caso di recesso per giusta causa, il rapporto di lavoro tra le parti avrà durata minima garantita pari a 12 (dodici) mesi dalla data di firma del presente contratto di assunzione. In caso di recesso anticipato per motivi diversi da una giusta causa, Lei sarà tenuta a versare alla società un risarcimento del danno prodotto e provato pari a 3 (tre) mensilità della sua retribuzione annua lorda, a titolo di penale e parziale corrispettivo per l’insegnamento e la formazione impartiti».
Per quanto maggiormente rileva, nel resistere al ricorso promosso dall’ex dipendente (assunto con contratto a tempo “pieno” e indeterminato, mansioni di customer service specialist, con inquadramento al livello 5° del C.C.N.L. Turismo e pubblici esercizi), va poi sottolineata l’allegazione del datore di lavoro, il quale asseriva la partecipazione del lavoratore a «diverse attività di formazione quali corso di Lingua inglese, corsi e certificazioni HACCP, accesso a corsi su piattaforme di learning quali Udemy e Learnn, partecipazione a workshop di formazione, sia interni che esterni, su tematiche di sviluppo e gestione di prodotto tecnologico».
Ciononostante, sulla scorta dei summenzionati precedenti di legittimità (in particolare, Cass. 9 giugno 2017 cit.), il magistrato meneghino dichiarava la nullità del patto controverso, accertandone un’evidente assenza di corrispettività, vertendosi, in specie, di sacrifici (i.e. il risarcimento del danno in caso di recesso anticipato) imposti al solo prestatore subordinato.
Nello specifico, ad avviso del Tribunale non poteva ritenersi «che il generico riferimento ad insegnamento e formazione possa rappresentare un reale bilanciamento delle pattuizioni contrattuali, poiché la formazione – anche ove impartita – rientra nel complesso delle obbligazioni discendenti dal contratto di lavoro, risponde ad un interesse del solo datore di lavoro e viene ordinariamente bilanciata dalla corretta esecuzione della prestazione in favore dello stesso datore di lavoro».
Trib. Roma 9 febbraio 2024, n. 1646
Di poco precedente, ma con opposte conclusioni, era invece il Tribunale di Roma, il quale, per quanto d’interesse, era sollecitato da un lavoratore assunto con contratto di apprendistato “professionalizzante” (artt. 41 e ss. D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81), nel quale era convenuta la seguente pattuizione: «nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest’ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso, Le sarà trattenuta una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata (1/26 dell’importo mensile) di formazione erogata fino al momento del recesso, calcolata sulle voci di cui ai precedenti punti A) Retribuzione fissa (comprensiva di 13^ e 14^ mensilità) e B) Retribuzione variabile».
Nell’occasione – e senza rimando ad alcuna delle Cassazioni citate in premessa -, dopo aver escluso la natura vessatoria dell’impugnata clausola e riconosciuto la meritevolezza dell’interesse datoriale (i.e. il dispendio economico “sopportato” per la formazione, al fine di destinare il dipendente alle mansioni assegnate), il giudice capitolino completava il proprio iter argomentativo accertando anche la “congruità” e non “eccesiva onerosità” della clausola penale, da un lato, poiché «il lavoratore non ha neppure seriamente contestato l’idoneità della formazione impartitagli o evidenziato alcuna specifica carenza del piano formativo, limitandosi genericamente ad affermare di non aver sostenuto alcuna giornata di formazione avendo prestato attività lavorativa in impianto unitamente ai propri colleghi (dimenticando di considerare, dunque, che la formazione non si svolge unicamente “in aula” ma anche “on the job”)»; dall’altro, perché «trattandosi della formazione relativa all’acquisizione della posizione lavorativa di operatore specializzato manutenzione infrastrutture per la quale sono previste specifiche abilitazioni, nella fattispecie il datore di lavoro non si è sostanzialmente mai potuto avvalere del contributo lavorativo effettivo del dipendente, che è stato impegnato interamente nella formazione».
Brevi osservazioni
Assunto tutto quanto precede e facendo perno sulle fattispecie concrete affrontate dalla più recente giurisprudenza di merito, sembra, dunque, potersi fornire qualche breve osservazione a commento di quella che, a tutti gli effetti, può senz’altro definirsi come peculiare – ma non infrequente – espressione contrattuale di policy retention aziendale.
A esempio, nell’applicare i principi enunciati dai giudici della nomofilachia, che pur riconoscono la “formazione” quale elemento astrattamente idoneo a compensare l’autolimitazione del prestatore subordinato alla propria facoltà di recesso (v. corsi di abilitazione per piloti di aeromobili in Cass. 7 settembre 2005 cit.), non si può che convenire col difetto di corrispettività accertato dal Tribunale di Milano.
Infatti, nel caso sottoposto al suo vaglio, tanto la “genericità”, quanto la “eventualità” circa «l’insegnamento e la formazione impartiti», non potevano che attrarre tali obbligazioni in quelle assunte a esclusivo interesse del datore di lavoro (art. 2104 c.c.), con riflessa impossibilità di ricomprenderle, al contempo, in quelle indispensabili al patto di “stabilità”, così come delineato dalla giurisprudenza di Cassazione; in definitiva, la “nullità” della clausola poteva derivare, sia per mancanze nell’oggetto della clausola in parola (art. 1346 c.c.), sia per natura di condizione meramente potestativa attribuibile alla medesima (art. 1355 c.c.).
Per quanto, invece, concerne la decisione del Tribunale di Roma, va detto che il suo, comunque, non condivisibile esito, risulta probabilmente influenzato dalla postura processuale tenuta dallo stesso lavoratore ricorrente, il quale, in effetti, limitava le sue doglianze alla vessatorietà dell’accordo oltreché alla sproporzione dell’importo previsto in luogo di penale.
Tuttavia e forse in modo addirittura più accentuato, anche in questo caso si mostrava come palese, l’assoluta assenza di corrispettività dell’accordo, non foss’altro che per la pacifica e assorbente considerazione che nel contratto di apprendistato, l’obbligazione formativa pendente sul datore di lavoro risulta un elemento essenziale e intrinseco dello speciale rapporto (Ex multis Cass. 31 maggio 2023, n. 15391), quindi, con certezza, non “imputabile” ad altri scopi e per il quale, oltretutto, il medesimo riceve in cambio, una serie di sostanziose “agevolazioni”, dal punto di vista normativo, retributivo, contributivo nonché assicurativo. Conseguentemente, anche in detta evenienza, profilandosi un vizio dell’accordo determinato ex art. 1418 c.c., ben avrebbe fatto il giudice, prescindendo dal petitum, ma forte dell’inequivocabile materiale istruttorio, a rilevarne d’ufficio la nullità (art. 1421 c.c.), così caducando il nocumento patrimoniale illegittimamente patito dal prestatore.