Vizi della procedura disciplinare e tecniche sanzionatorie
Tribunale di Roma, sentenza 12 ottobre 2024, n. 10104 est. Rossi
Corte di cassazione, ordinanza 11 novembre 2024, n. 28927
di Filippo Capurro
Le due pronunce qui segnalate affrontano l’ambito dei vizi della procedura disciplinare nel licenziamento per motivi soggettivi e le relative conseguenze sanzionatorie.
In entrambi i casi vi era assoluta carenza della procedura.
Ma vi possono essere ipotesi in cui il vizio riguarda una procedura sussistente, come quando manchi la tempestività, la specificità o quando siano violati i termini previsti in vario modo dalla contrattazione collettiva per scandire le diverse fasi dell’iter disciplinare.
La questione sorge in relazione allo strumento sanzionatorio da applicare al licenziamento che risenta di tali vizi.
Di base, sia l’art. 18, comma 6, L. n. 300/1970, come riformato dalla L. n. 98/2012, sia l’art. 4, D.Lgs. n. 23/2015 hanno previsto sanzioni indennitarie molto attenuate per i vizi procedurali.
Tuttavia, ci si è domandati se questo impianto sanzionatorio sia applicabile in ogni ipotesi di vizio procedurale o se vi siano situazioni in cui il vizio trasmodi in qualcosa di sostanzialmente diverso da un mero difetto per così dire formale.
La materia non è semplice, sia perché i vizi della procedura disciplinare possono essere di diverso tipo e intensità, sia perché la ricerca di una sanzione appropriata spazia nell’ambito di tre corpi normativi (L. n. 604/1966, art. 18, L. n. 300/1970, D.Lgs. n. 23/2015) soggetti, con diversi ambiti soggettivi di applicazione, all’interno dei quali le tutele sono variamente gradate e coinvolgono profili di illegittimità assai variegati.
Di seguito proverò a dare qualche spunto sulle direttrici di impianto delle diverse strade percorribili.
Il Tribunale di Roma, ha affermato che la mancanza della procedura disciplinare determinerebbe la violazione dell’art. 7, L. n. 300/1970 che è norma imperativa. Si avrebbe così una nullità di protezione, posta a tutela del lavoratore come parte debole del rapporto e conseguentemente l’applicazione della tutela reintegratoria piena, ai sensi dall’art. 2 D.Lgs. n. 23/2015, a prescindere dal numero dei lavoratori occupati.
I passaggi logici della decisione – che riguarda una piccola imprese e un lavoratore al quale si applicano le “tutele crescenti” – sono significativi.
Viene esclusa la possibilità di applicare l’art. 4, D.Lgs. n. 23/2015, che prevede una tutela indennitaria molto attenuata ma che riguarda solo violazioni di tipo formale, giacché la radicale mancanza di contestazione disciplinare non costituisce solo una violazione formale ma concreta una violazione con riflessi sostanziali.
Viene esclusa l’applicazione l’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, che prevede la tutela reintegratoria attenuata, e che riguarda l’ipotesi di insussistenza del fatto. Ciò poiché la norma non si applica alle imprese sotto quota (per il disposto dell’art. 9, D.Lgs. n. 23/2015). Il passaggio logico di escludere questa forma di tutela è svolto con piena consapevolezza dell’orientamento di giurisprudenza che assimila l’assoluta mancanza di procedura disciplinare all’insussistenza del fatto, perché un fatto non può formare neppure oggetto di accertamento giudiziale se non contestato. Di tale orientamento dirò tra poco.
È esclusa poi l’applicazione dell’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, che prevede la tutela indennitaria e che in astratto sarebbe applicabile anche ai datori di lavoro sotto quota, pur in misura ridotta (per il disposto dell’art. 9), perché la norma riguarda ipotesi residuali in cui non ricorra il requisito causale.
Viene osservato che, essendo l’art. 7, L. n. 300/1970 posto a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, esso va posto nella categoria delle nullità di protezione, atteso che la procedura garantistica prevista in materia disciplinare è inderogabile.
Da qui l’applicazione dell’art. 2, comma 1, che comprende, tra le ipotesi meritevoli di tutela reintegratoria, anche quelle derivanti da nullità virtuali, da quelle cioè che, pur in mancanza di tale espressa previsione, costituiscano ipotesi di contrarietà a norme imperative ai sensi del primo comma dell’art.1418 c.c.
Del resto in tal senso Corte cost. 22/02/2024, n. 22 che ha dichiarato parzialmente incostituzionale la norma nella parte in cui prevede la reintegra nei soli casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”. La Sentenza del Giudice delle leggi ha riferito la tutela reintegratoria piena a tutti i casi di nullità, anche nell’ipotesi in cui essa non sia espressamente stabilita, a condizione che la norma che non viene rispettata abbia un evidente carattere imperativo.
Questo l’iter logico che forse sconta un passaggio di troppo.
Mi riferisco al punto – che ho sopra riportato – in cui viene esclusa l’applicazione dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015. Serviva davvero argomentare la non applicabilità di questa norma in ragione della dimensione occupazionale? Se di nullità si parla, allora la tutela massima dovrebbe avverarsi indipendentemente dal fatto che siano o meno applicabili gli altri rimedi astrattamente utilizzabili in ragione di dimensione occupazionale.
L’altra pronuncia (Cass., ord. 11/11/2024, n. 28927)– riferita a una fattispecie in cui era applicabile l’art. 18, L. n. 300/1970 – afferma invece che l’omessa contestazione disciplinare, è equiparata al difetto assoluto di giustificazione del licenziamento e comporta l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, comma 4.
Questa norma, infatti, collega tale tecnica sanzionatoria all’insussistenza del fatto contestato giacché la contestazione costituisce un presupposto logico e giuridico essenziale per la valutazione dell’illegittimità del licenziamento, poiché consente al lavoratore di conoscere le accuse mosse contro di lui, predisporre un’adeguata difesa e dimostrare l’insussistenza del fatto o l’inadeguatezza del recesso. E del resto, l’inciso dell’art. 18, comma 6 (“a meno che il giudice accerti anche il difetto di giustificazione”) stabilisce una priorità tra illegittimità sostanziale (carenza di giusta causa o giustificato motivo) e illegittimità procedurale, senza assorbimento delle tutele applicabili.
I vizi – più o meno intensi – della procedura disciplinare hanno visto, all’indomani delle riforme
sui licenziamenti, un movimentato sviluppo giurisprudenziale.
In un primo momento successivo alla riforma dell’art. 18, L. n. 300/1970, il comma 6 aveva avuto
un’interpretazione ampia.
Cass. 07/12/2016, n. 25189 aveva affermato che la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell’eventuale provvedimento di recesso rende operativa la tutela indennitaria attenuata prevista dal successivo art. 18, comma 6.
Cass. 10/08/2016 n. 16896 ha ritenuto applicabile la medesima tutela all’ipotesi di contestazione disciplinare priva di una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, mentre la tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, comma 4, si applicherebbe solo quando il licenziamento è privo del requisito essenziale della contestazione preventiva.
Successivamente le maglie hanno cominciato a stringersi.
Cass. 31/01/2017, n. 2513, in tema di tempestività della contestazione, aveva ritenuto che l’immediatezza della reazione datoriale integri un elemento costitutivo e sostanziale della giusta causa di recesso, tale, se mancante, da rivelarne l’insussistenza stessa del fatto. La conseguenza sarebbe l’applicazione del regime di tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970. Ciò poiché, un fatto non tempestivamente contestato deve essere considerato come “insussistente”. Si tratterebbe infatti di una violazione che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il giudice accerti la sussistenza o meno del “fatto” e, quindi, di valutarne la commissione effettiva.
Sulla stessa linea Cass. 14/12/2016 n. 25745 ha affermato che la radicale mancanza della contestazione disciplinare determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 L. n. 300/1970 previsto per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito.
A cercare di comporre il contrasto è intervenuta Cass. SS.UU. 27/12/2017 n. 30985 secondo la quale il licenziamento disciplinare che viene dichiarato illegittimo per notevole tardività della contestazione deve essere sanzionato con il riconoscimento in favore del dipendente della tutela economica forte di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970. In particolare viene affermato che, in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, per consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile.
Tribunale di Venezia 14/01/2020 est. Bortoloso, ha affrontato il caso di licenziamento disciplinare comminato a un lavoratore prima del decorso del termine per le giustificazioni previsto dall’art. 7 L. n. 300/1970. La pronuncia ha esteso all’area delle “tutele crescenti” i principi enucleati dalla Cass. SS.UU. n. 30985/2017. La violazione del diritto di difesa viene così sanzionata con la tutela economica forte di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015.
Cass. 23 giugno 2023 n. 18070, in assenza di contestazione disciplinare, ha applicato la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, giacché l’insussistenza del fatto contestato, implicitamente non può che ricomprendere anche l’ipotesi di inesistenza della contestazione.
Interessante è anche Trib. Ravenna 12/01/2022 est. Bernardi che assimila la tardività della contestazione all’insussistenza del fatto contestato, sulla base dell’osservazione per la quale la prolungata inerzia del datore di lavoro di fronte al comportamento del dipendente possa essere considerata una dichiarazione implicita della volontà di non perseguire il fatto, e quindi dell’insussistenza di una lesione in concreto ai propri interessi. Mancando dunque il requisito dell’antigiuridicità, il fatto tardivamente contestato, sarebbe insussistente, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 L. n. 300/1970.
Infine, particolarmente interessanti sono due recenti pronunce.
Cass. 12/11/2024 n. 29148 ord, che ha ritenuto viziato il licenziamento per violazione della clausola del contratto collettivo che richiedeva la previa richiesta di parere al Comitato di Redazione, applicando la c.d. “tutela reale di diritto comune” ossia l’inefficacia del diritto “diritto comune dei contratti”, con conseguente continuazione de iure del rapporto di lavoro e annessi diritti risarcitori.
Trib. Ravenna, 12/09/2024, n. 302 est. Bernardi, che ha ritenuto come il recesso ad nutum, intimato in base ad una clausola del contratto di lavoro contenente un patto di prova dichiarato nullo, comporta la tutela reintegratoria piena ex art. 2 D.Lgs. n. 23/2015, relativa anche alle nullità virtuali, afferenti a ipotesi di violazione di norme imperative.