Ogni tentativo è vano: l’avvocato non è subordinato (il praticante parliamone…)

di Eugenio Erario Boccafurni*

* Le valutazioni espresse sono personali e non rappresentano il punto di vista dell’Ente di appartenenza

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La Cassazione, con la sentenza n. 28274 del 4 novembre 2024, ha ribadito il carattere autonomo della professione di avvocato rispetto al ricorso di un legale che chiedeva il riconoscimento della natura subordinata del rapporto intercorso con uno dei più noti Studi legali del Paese (studio multidisciplinare, composto da 50 soci, con 296 professionisti e 95 dipendenti di supporto dell’attività professionale).

Prima di addentrarsi nella disamina della sentenza di legittimità, si rappresenta che ciclicamente la questione della natura del legale torna ad essere riproposta con esiti non dissimili (cfr. Cass. nn. 5389/1994; 9894/2005; 3594/2011; 22634/2019).

Altrettanto non può dirsi, invece, in relazione alla natura del praticante avvocato, specie qualora non siano mai stati consegnati i certificati di avvenuta accettazione della pratica o di compiuta pratica (cfr. Cass. n. 4271/2011) o, più in generale, allorquando il praticante “di lungo corso” sia tenuto a gestire l’agenda di studio in assenza di paralegali e/o segretari.

Inoltre, è importante tenere ben presente che la natura autonoma della prestazione resa non può essere ex se desunta né dall’iscrizione di un professionista ad un albo né dalla circostanza che quest’ultimo abbia emesso fatture per una pluralità di committenti: «Né valgono, di per sé, ad escludere la configurabilità del suddetto tipo di rapporto l’iscrizione del prestatore di lavoro ad un albo, per esempio delle imprese artigiane (in quanto ad una iscrizione formale, priva di valore costitutivo, può non corrispondere l’effettiva esplicazione di attività lavorativa autonoma) ovvero l’emissione di fatture per il pagamento delle prestazioni lavorative eseguite (potendo tale formalità essere finalizzata proprio alla elusione della normativa legale surrichiamata), oppure la circostanza che il lavoratore svolga la sua attività per una pluralità di committenti» (Cass. n. 26466 del 10.10.2024).

Tutt’al più, le suddette circostanze sono da intendersi come “indici di autonomia”, da valutare nella più ampia ricostruzione condotta dal giudicante con metodo sussuntivo.

Venendo alla pronuncia oggetto di nota, il punto nodale della questione interpretativa rimessa al giudizio della Cassazione attiene l’obbligo di esclusiva e la condizione di monocommittenza in cui si trovano a lavorare tanti avvocati in Studi di grandi dimensioni, spesso a vocazione internazionale e con spiccata propensione alla consulenza.

A tal proposito, si è ritenuto che l’elevata organizzazione dello Studio associato non configuri esercizio dell’eterodirezione del potere direttivo: «Tutti i professionisti, compresi i soci, lavorano per lo Studio, che in via esclusiva intrattiene i rapporti contrattuali con i clienti ed emette le fatture nei confronti degli stessi. Tutti i professionisti hanno un obbligo di esclusiva, nel senso che non possono gestire una propria clientela collaterale a quella dello Studio, ma possono certamente proporre nuovi clienti ed anzi lo sviluppo della clientela è incoraggiato e incentivato ed ha riflessi positivi anche in termini economici poiché il professionista partecipa ai ricavi provenienti dalle relative pratiche. Queste regole compongono – insieme ad una serie di altri dati, un sistema organizzato all’interno del quale il singolo avvocato decide di prestare la propria attività professionale, accettando alcune limitazioni in cambio di altrettante agevolazioni e prerogative.

Le regole sul funzionamento del rapporto con i clienti e il connesso obbligo di esclusiva sono si decise unilateralmente dagli organi dello Studio associato ma, come accertato dai giudici di appello, rispondono alle esigenze di coordinamento dell’attività dei tanti professionisti che vi operano, nessuno dei quali è svincolato dalla loro osservanza.

Ed è proprio quest’ultimo aspetto che pone in risalto il lato oggettivo e funzionale dell’organizzazione in cui la stessa ricorrente era inserita: non un sistema di comando imposto ai professionisti non soci, bensi un insieme organico di regole (per la gestione delle pratiche, per l’utilizzo degli strumenti informatici, per la sicurezza delle informazioni) destinate a fissare alcuni limiti e a tracciare alcune procedure al fine di gestire la complessità connessa al numero di professionisti e alla tipologia di clientela. In tale contesto, l’obbligo di esclusiva trova una plausibile spiegazione, all’interno della cornice del coordinamento, nello scopo di evitare conflitti di interesse che potrebbero sorgere se ciascuno dei professionisti potesse gestire, in modo parallelo, una propria clientela, tenuto anche conto dell’ambito di copertura dei rischi in base alla polizza professionale sottoscritta dallo Studio».

Inutile soffermarsi, infine, sul preteso riconoscimento di una collaborazione etero-organizzata, ex art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, nel caso di specie: trattandosi di avvocati, appare evidente che l’esclusione novellata al comma 2 dello stesso articolo (“la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: b) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali”) renda ultronea qualunque considerazione di merito sulla richiesta avanzata (e sull’organizzazione del committente…).