L’attività “mobbizzante” può essere attuata anche per via processuale: condanna per responsabilità ex art. 96, comma 3 c.p.c. al datore di lavoro che neghi l’evidenza di un ambiente nocivo e stressogeno

Tribunale di Ravenna, Sez. Lav., sentenza 7 novembre 2024, n. 391 – Giud. Bernardi

di Domenico Tambasco

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Il caso

La vicenda affrontata dalla pronuncia in commento riguarda quello che, senza alcun dubbio, può definirsi un “lavoro da incubo”.

La ricorrente, lavoratrice di una nota azienda produttrice di salotti, conviene in giudizio sia INAIL sia il datore di lavoro per vedere accertare, da un lato, la malattia professionale e la condanna dell’istituto al pagamento dell’indennizzo dovuto ex lege e, dall’altro, per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, tanto in via contrattuale quanto in via aquiliana.

Il materiale istruttorio, di natura documentale (e-mail del superiore gerarchico) e orale (testimonianze), consente di accertare un ambiente lavorativo caratterizzato da una serie di condotte, realizzate continuativamente e per un lungo periodo, “nei confronti di una pluralità di lavoratori tra cui la ricorrente…, lesive della dignità, della buona creanza nei rapporti umani e delle regole contrattuali, e in particolare:

  • Una serie di e-mail inviate dal datore di lavoro ai venditori, in cui il titolare dell’azienda “sferza continuamente il personale (tra cui la ricorrente) con insulti e atteggiamenti prevaricatori, con minacce di sanzioni disciplinari e di licenziamento (chiusura negozi)”;
  • Multe ai dipendenti per errori commessi sul lavoro, irrogate in assenza di qualsivoglia procedimento disciplinare;
  • Pubblicità denigratoria delle multe, in modo da esporre il dipendente ad una sorta di “gogna dinanzi ai propri colleghi”;
  • L’utilizzo del cliente in incognito (cd “mistery shopper”) per sottoporre a controllo a sorpresa l’operato dei dipendenti all’interno dei punti vendita, in palese violazione dell’art. 3 Stat. Lav., e tale da “creare un clima di tensione costante e permanente nel personale, sempre potenzialmente sottoposto -all’accesso di ogni cliente- a notevole stress prestazionale, non sapendo se il cliente che si trova davanti è o meno un informatore del datore di lavoro”.
  • Lo svolgimento di attività demansionante (pulizie del punto vendita, bagni compresi);
  • La sottrazione di ogni scrivania e postazione di seduta, per “stimolare” i dipendenti a lavorare in modo “coinvolgente”: nella sostanza, “all’addetto alle vendite veniva imposto di lavorare in piedi costantemente, potendo solo talvolta lo stesso sedersi sul divano con il cliente all’atto della vendita”;
  • L’esposizione al ludibrio aziendale di coloro che non avevano partecipato, alle porte della stagione del Covid-19 (marzo 2020), alla trasferta aziendale all’estero (“I paurosi del Covid rimangano a casa”).

La valutazione del giudice è tranciante: “Tutte tali condotte denotano un atteggiamento datoriale teso al sistematico mancato rispetto della persona del lavoratore, alla continua ricerca di una ingiustificata, inutile umiliazione dello stesso, alla creazione di un clima di paura, nel quale si rischiano anche trattenute stipendiali ed ogni cliente poteva essere un ispettore esterno, mandato dal padrone a verificare che il lavoratore non sgarrasse”.

Dal punto di vista fattuale il quadro è chiaro e porta i convenuti alla condanna al pagamento degli indennizzi e dei risarcimenti, liquidati a favore della lavoratrice.

Nessun problema, almeno all’apparenza.

Mobbing, straining, stalking o costrittività organizzativa?

Nonostante una situazione di fatto macroscopica nella sua abnormità, alquanto difficoltosa appare tuttavia la qualificazione giuridica.

La sentenza, infatti, si apre con l’accertamento di una situazione di inadempimento datoriale “qualificabile quale mobbing (nonché, come minimo, quale straining)”, con una sovrapposizione di fattispecie che non giova alla chiarezza descrittiva. Non facilita l’individuazione della fattispecie concreta neppure il riferimento allo “stalking”, operato dal giudice con riguardo alla tecnica comunicativa utilizzata dal titolare nei confronti dei dipendenti, a cui si aggiunge il conclusivo accertamento della “costrittività organizzativa”, relativa all’attribuzione dei compiti demansionanti, alle forme di controllo occulto e oppressivo (cd “mistery shopper”), all’eliminazione delle postazioni e delle sedute ergonomiche, alle minacce e alle contumelie datoriali che, nel loro complesso, avevano contribuito a causare la patologia psico-fisica della ricorrente.

Facciamo un passo indietro, e torniamo ai fatti.

L’istruttoria processuale ha consentito l’emersione di due circostanze molto rilevanti: il fatto che le condotte illecite fossero rivolte non solo alla singola persona della ricorrente, bensì a una pluralità di lavoratori, e il fatto che il titolare dell’azienda si lasciasse andare anche a “slanci di apprezzamento” nei confronti della lavoratrice. Circostanze del tutto incompatibili con la qualificazione in termini sia di mobbing che di straining della vicenda lavorativa in questione, in quanto escludono a priori l’esistenza dell’intento persecutorio, vale a dire l’elemento fondante di queste forme di conflittualità lavorativa che hanno nell’obiettivo discriminatorio (ovverosia il trattare la vittima in modo intenzionalmente differenziato – discrimen – e pregiudizievole, al fine di renderla più debole e vulnerabile) il loro fulcro (cfr. Ege, Tambasco, Il lavoro molesto, Milano, 2021, 13 e ss.). 

D’altro canto, come osservato da un’attenta giurisprudenza, quando la condotta illecita viene realizzata nei confronti della generalità dei dipendenti quale espressione “di una mala gestio elevata a sistema”, non può sussistere l’elemento soggettivo discriminatorio che necessariamente deve caratterizzare la condotta mobbizzante (Trib. Milano, Sez. Lav., 16 marzo 2018, n. 597). Ed è proprio il caso di specie in cui, più che di condotte persecutorie mobbizzanti o strainizzanti, bisogna parlare di un’organizzazione lavorativa disfunzionale.

Soccorre, a tal proposito, l’ampia e ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale prodotta negli ultimi anni sul tema, che, partendo dalla nozione “positiva” di salute, consistente nello “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” (cfr. Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; art. 2, comma 1, lett. o), D.Lgs. n. 81/2008; Cass. 7 giugno 2024, 15957),ha progressivamente posto l’attenzione sulla rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori (Cass., 15 novembre 2022, n. 33639, par. 2.3.4).

Siamo di fronte ad una nuova prospettiva rispetto a quella invalsa per oltre un ventennio di dominio incontrastato del mobbing, essendo rivolta all’analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali attraverso la “norma di chiusura” dell’art. 2087 c.c., che permette di tradurre la responsabilità del datore di lavoro per le condotte lesive della personalità morale del prestatore anche nel mantenimento di condizioni di lavoro oggettivamente stressogene (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084 che parla di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia”; cfr., ex multis, Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664; Cass. 28 dicembre 2023, n. 36208; Cass. 7 febbraio 2023, 3692; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428; Cass. 25 ottobre 2022, n. 31514).

Nel caso di specie, come peraltro rilevato dallo stesso giudice ravennate, emergono in modo evidente tutti gli elementi propri di un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno (attraverso il riferimento alla invalsa formula della “costrittività organizzativa”, recentemente ripresa dal D.M. 15 novembre 2023 del Ministero delle Politiche Sociali). Le colpevoli disfunzioni dell’assetto organizzativo aziendale, infatti, riguardano tanto la prestazione di lavoro nel suo aspetto qualitativo (ergonomia, attribuzione delle mansioni lavorative, controlli occulti ed esasperati) quanto la gestione dei rapporti interpersonali (minacce, contumelie, pubbliche delegittimazioni); mancanze organizzative, come accennato, che devono ascriversi – quantomeno – alla negligenza del datore di lavoro.

La questione risarcitoria e la dissuasività per via indiretta: la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 comma 3 e 4 c.p.c.

La “montagna” dell’accertamento giurisdizionale, snodatosi tra innumerevoli prove documentali e plurime escussioni testimoniali, partorisce il “topolino” risarcitorio: il danno non patrimoniale, correttamente liquidato sulla base delle Tabelle Milanesi e dell’accertamento svolto dal CTU medico-legale, ammonta alla complessiva somma di 32.724,26 euro, di cui solo 12.657,00 euro a carico del datore di lavoro a titolo di danno differenziale. Un esito che, se si considera l’estrema gravità del contesto lavorativo accertato (che tra l’altro ha coinvolto una pluralità di lavoratori) e l’altrettanto pesante lesione alla dignità della lavoratrice, pare non soddisfacente. Del resto, già in altre sedi si è avuto modo di sottolineare l’inadeguata risposta dell’ordinamento (cfr. Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza italiana, OIL, 2022, p. 7 e ss.).

Ecco, allora, che l’aspetto più innovativo e certamente più originale della pronuncia in commento si trova nella parte conclusiva, laddove applica le previsioni dell’art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità processuale aggravata. Più precisamente, “pur nella controvertibilità del quantum…va sicuramente stigmatizzata come contraria a buona fede ed anzi in perfetta mala fede (dolo) una resistenza in giudizio che…nonostante una enorme mole di fatti anche di rilievo documentale, anche provenienti dallo stesso datore di lavoro, a sostegno della domanda di controparte, abbia semplicemente negato l’evidenza, anche sottoponendo al giudice una serie di testimoni-difensori altamente improbabili nell’assurdità delle loro dichiarazioni-difese recate in favore del datore di lavoro”. Con la conseguenza che “anche la distrazione di risorse processuali impiegate per svolgere prove orali completamente inutili giungendosi all’esito a confermare l’evidenza può ritenersi integrare un danno alla controparte (per la quale va ravvisata anzi una prosecuzione dell’attività mobbizzante perpetrata per vie processuali) ed al sistema giustizia”.

La resistenza in giudizio in mala fede (o con colpa grave), quindi, può configurare una “vittimizzazione secondaria”: è una affermazione certamente inedita, che merita un’attenta riflessione. Se, infatti, è da un lato vero che spesso il processo può sostanziarsi in una rinnovata esposizione al contesto stressogeno (se non persecutorio) che si vuole denunciare e far cessare proprio con lo strumento giudiziale, è altrettanto vero che nello stesso processo si realizza e si svolge un valore altrettanto fondamentale, che è il diritto di difesa costituzionalmente tutelato e garantito. Diritto esercitato anche nel caso di specie, in cui la difesa datoriale ha comunque di gran lunga moderato il quantum risarcitorio richiesto dalla controparte.

Siamo di fronte, dunque, ad uno snodo cruciale, in cui si contrappongono, faccia a faccia, la dignità del prestatore di lavoro e il diritto di difesa: questione delicata, che richiama da un lato l’esigenza di dissuasività della risposta giurisdizionale e dall’altro la libera dialettica processuale.

In questo caso si è deciso, nel bilanciamento dei valori contrapposti, di dar peso alla dignità offesa della lavoratrice, condannando l’azienda non solo al risarcimento dell’importo pari alle spese legali liquidate in favore della ricorrente (art. 96, comma 3 c.p.c.), ma anche al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma pari al massimo edittale di 5.000 euro (art. 96, comma 4 c.p.c.), alla luce della “gravità dei fatti, della gravità della condotta processuale, nonché tenuto conto delle dimensioni anche occupazionali dell’ex datore di lavoro”.

La finalità dissuasiva-sanzionatoria è evidente, e pare giustificata dall’obiettiva odiosità della vicenda concreta.

Un dubbio, tuttavia, sembra lecito – a chi scrive – sollevare: non sarebbe possibile giungere ad un risultato più tutelante per la dignità del lavoro, salvaguardando al contempo anche l’incomprimibile diritto di difesa?

La risposta, è il caso di dirlo, dovrebbe darla il legislatore, da anni inerte nonostante una pluralità di disegni di legge depositati in Parlamento, finalizzati a modificare i criteri risarcitori in materia, attraverso l’introduzione di parametri di liquidazione di natura anche dissuasiva (cfr. Ege, Tambasco, Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali, Labor, 3/2021).

È una risposta che stiamo ancora attendendo.