Licenziamento disciplinare e abuso dei permessi L. n. 104/92: il tempo dell’assistenza al disabile non si misura con il cronometro

Nota a Corte di cassazione, Sez. Lav., ordinanza 9 settembre 2024, n. 24130.

di Michelangelo Salvagni

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La vicenda fattuale.

Al fine di un corretto inquadramento della fattispecie, va evidenziato che il caso riguarda la tematica dell’abuso dell’utilizzo dei permessi ex lege n. 104/92. In particolare, la lavoratrice risultava titolare dei permessi ex art. 33 L. n. 104/1992, al fine di assistere la madre, portatrice di handicap grave. Alla prestatrice era stata intimata la seguente contestazione disciplinare: che in data 8 maggio 2019 aveva prestato assistenza alla madre esclusivamente dalle 12,30 circa sino alle ore 15,50 circa; che il 31 maggio 2019 aveva prestato assistenza alla madre esclusivamente dalle ore 11,00 circa alle ore 15,45 circa; che nei giorni 25.5.2019 e 22.6.2019 non aveva affatto prestato assistenza alla madre, essendo rimasta presso la sua abitazione; oltre ad avere effettuato, durante il periodo di fruizione dei permessi, acquisti personali presso un mercatino.

Il Tribunale, nella doppia fase Fornero e, poi, la Corte territoriale di Napoli, con riferimento sia ai due giorni per i quali la datrice di lavoro assumeva non essere stata assolutamente prestata assistenza alla disabile da parte della lavoratrice, sia in ordine agli altri due giorni oggetto di contestazione di assistenza limitata, giungevano alla conclusione che non sussisteva la prova del fatto contestato, essendovi invece prova dell’uso dei permessi conforme alla propria ratio.

La Corte di Appello, inoltre, aggiungeva che l’attività marginale svolta dalla lavoratrice durante il tragitto per l’acquisto di beni al mercatino non poteva ritenersi idonea a ritenere sussistente il contestato abuso, tenuto conto invece del fatto che l’acquisto di capi di abbigliamento ben poteva essere finalizzato a soddisfare le esigenze dell’assistita.

A parere dei giudici di merito, una volta dimostrato in giudizio che i permessi siano stati utilizzati in modo coerente alla propria ratio (per acquisti nell’interesse della persona disabile; presso la residenza del disabile o presso quella della persona dedita all’assistenza, ecc.), il giudice non può sindacare il modo in cui l’assistenza sia prestata, né può pretendersi che l’assistenza sia svolta nelle stesse ore in cui era svolta l’attività lavorativa (in termini, la sentenza in commento richiama espressamente Cass. n. 54712/2016). In particolare, secondo la Corte di Appello, l’elemento essenziale che connota il corretto esercizio del diritto in esame è costituito dal nesso di causalità fra la fruizione del permesso e l’attività di assistenza.

La società datrice di lavoro ricorreva in cassazione affermando che la Corte d’Appello aveva violato il principio secondo cui l’assistenza deve essere fornita personalmente e per tutto il tempo dal lavoratore richiedente il permesso. In altri termini, secondo la tesi datoriale, la Corte territoriale aveva errato laddove aveva ritenuto che non si sarebbe configurato l’abuso del diritto affermando, invece, che illasso di tempo dedicato alla disabile fosse del tutto idoneo all’assistenza della medesima, anche in ragione del fatto che vi era prova del fatto che quest’ultima coabitava con l’altro figlio, le nipoti e la nuora.

Tuttavia, prima di affrontare le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte con la sentenza in annotazione, appare opportuno ripercorrere, seppur brevemente, quali siano stati gli orientamenti giurisprudenziali intervenuti sulla fattispecie dell’abuso del diritto nella fruizione dei permessi ex art. 33, L. n. 104 del 1992.

I precedenti giurisprudenziali sull’abuso del diritto nella fruizione dei permessi ex art. 33, L. n. 104/92.

La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla tematica dei licenziamenti disciplinari intimati a causa dell’utilizzo di permessi ex art. 33, L. n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle della cura del disabile.

La fattispecie è quella dell’abuso del diritto con riferimento all’uso improprio delle prestazioni assistenziali da parte dei lavoratori. Sul punto, esiste un orientamento di particolare rigore che fa proprio leva sul “disvalore sociale” della condotta che contrasta col “minimo etico” preteso dal lavoratore funzionalmente collegato, non solo agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, ma anche con quelli che sono connaturati all’appartenenza ad una comunità.

In tal senso, tra le prime sentenze che si sono occupate della questione, si segnala Cass. 4 marzo 2014, n. 4984, che ha trattato il noto caso dell’utilizzo dei permessi ex lege n. 104/1992 per partire in vacanza con degli amici per un lungo fine settimana. Decisione seguita da Cass. 30 aprile 2015, n. 8784, ove il prestatore aveva abusato del diritto utilizzando il permesso per partecipare ad una “serata danzante”. Condotte queste che denotavano una violazione del principio di buona fede nei rapporti con il datore di lavoro tali da integrare l’abuso del diritto (si veda in tal senso: Cass. 17 settembre 2019, n. 19580, in Notiz. giur. lav., 2019, 518 e ss.. Sul punto, si vedano ex multis: Cass. 6 maggio 2016, n. 9217, in Il Foro it., Rep. 2016, voce Lavoro (rapporto), n. 1026; Cass. 22 marzo 2016, n. 5574, in Riv, it. dir. lav., 2016, II, 747 ss., con nota di Allocca; Cass. 04 marzo 2014, n. 4984, in Giur. it., 2014, 252, con nota di Balletti).

Tale posizione interpretativa, nel tempo, si è consolidata, segnalandosi in termini: Cass. 22 marzo 2016, n. 5574; Cass. 13 settembre 2016, n. 17968; Cass. 25 marzo 2019, n. 8310; Cass. 19 luglio 2019, n. 19580, Cass. 16 giugno 2021, n. 17102.

Da ultimo, nel solco di tale indirizzo di legittimità, la Cassazione, con ordinanza n. 6468 del 12 marzo 2024, ha affermato che l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex lege n. 104/92, per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, costituisce giusta causa di licenziamento in quanto viola le finalità per cui il beneficio è concesso. Tale arresto ribadisce il principio per cui, in ragione di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso ex L. n. 104/92, deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile.

L’orientamento giurisprudenziale che privilegia un approccio “qualitativo” e non “quantitativo” della fruizione dei permessi ex art. 33, L. n. 104 del 1992.

Occorre comunque evidenziare che, nonostante il rigore esegetico della fattispecie dell’abuso del diritto, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha delineato negli anni alcune “soluzioni” per così dire di “buon senso” nell’interpretazione delle modalità e dei tempi dell’assistenza del disabile al fine di evitare licenziamenti pretestuosi.

Il discrimine fra l’uso corretto del permesso e l’esercizio abusivo dello stesso può rivelarsi “scivoloso” e può causare, se non valutato in maniera corretta rispetto alla tutela sottesa al valore sociale dell’istituto, la compressione di diritti fondamentali del disabile e di colui che se ne prende cura. Il compito del giudice, anche secondo gli arresti giurisprudenziali intervenuti in materia, è quello di effettuare un’indagine scrupolosa al fine di verificare se la parziale assistenza possa determinare un uso improprio del permesso.

La Cassazione mediante la pronuncia in esame, sulla falsariga di altri precedenti giurisprudenziali che si sono occupati di questa fattispecie, sembra privilegiare un approccio interpretativo di tipo qualitativo, piuttosto che quantitativo, della prestazione di assistenza dovuta in ragione della fruizione dei permessi ex art. 33, L. n. 104/92 (in merito, si veda anche Cass. 20.8.2019, n. 21259, in Riv. giur. lav., 2020, 1, II, 90) e, quindi, respinge la tesi datoriale dell’abuso del diritto in ragione di una presunta assistenza temporale di tipo parziale.

Tuttavia, sul punto occorre dare conto che in passato la Cassazione aveva privilegiato l’interpretazione della “assistenza totale”. Cass. 22 marzo 2016, n. 5574 aveva infatti affermato che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell’aver svolto l’attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce, pertanto, giusta causa di recesso del datore di lavoro.

Le decisioni della Suprema Corte che, invece, hanno valorizzato quella che può definirsi la c.d. “assistenza qualitativa” sono numerose e costituiscono ormai un punto fermo. Esse, innanzitutto, chiariscono come i fatti oggetto di contestazione posti al proprio vaglio non integrassero quelle fattispecie già analizzate dalla giurisprudenza riguardanti, appunto, l’abuso del diritto ove, invece, i permessi ex lege n. 104 del 1992 erano stati fruiti per interessi personali del lavoratore.

Tale orientamento è stato inaugurato, a quanto consta, da Cass. n. 17968 del 2016, in cui è stato osservato che vi è abuso del diritto “ove il nesso causale manchi del tutto” tra assistenza del disabile e assenza dal lavoro, ciò giustificando il recesso per lesione della buona fede del diritto. Successivamente Cass. 31 gennaio 2017, n. 2600, ha affermato che, pur volendo aderire alla tesi che l’assistenza al disabile deve essere continua ed esclusiva, di certo non si può pretendere che essa si espleti ininterrottamente per l’intera giornata.

Sempre con riferimento a questo indirizzo giurisprudenziale, si segnala che Cass. 20 agosto 2019, n. 21529, ha sostenuto che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33, L. n. 104 del 1992, allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione. In tale occasione, veniva respinta la tesi datoriale secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile.

Orientamento questo confermato negli anni successivi da Cass. 19 giugno 2020, n. 12032, Cass. 12 agosto 2020, n. 16930 e Cass. ord. 25 settembre 2020, n. 20243 (per un approfondimento su queste sentenze si rimanda a M. Salvagni, Licenziamento disciplinare per abuso dei permessi ex art. 33, l. n. 104/1992, in Riv. giur. lav., 2021, n. 1, II, Giurisprudenza online, Newsletter n. 2/2021).

A parere della dottrina l’uso improprio del beneficio, infatti, non deve però prestare il fianco ad “apprezzamenti di mero ordine etico-morale, che sono comunque da evitare”, in quanto occorre sempre avere come bussola di riferimento “una valutazione tecnico-giuridica della fattispecie concreta in base ai consolidati canoni di giudizio delle legittimità del potere di recesso” (E. Balletti, Controllo “occulto” e sanzionabilità dell’utilizzo improprio dei permessi assistenziali, in Giur. it., 2014, 2521).

Con riferimento proprio ad una valutazione della fattispecie concreta, scevra da pregiudizi etico -morali, già i giudici di legittimità, nelle citate sentenze del 2020, avevano richiamato il principio secondo cui l’assistenza al disabile non può intendersi esclusiva al punto di impedire, a chi la offre, di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita (in tal senso, si veda anche Cass. 5.12.2017, n. 29062, in Riv. giur. lav., 2, II, 135, con nota di M. Salvagni, Licenziamento disciplinare e congedo straordinario per l’assistenza del disabile). Altrimenti, vi sarebbe l’effetto paradossale, non previsto dalle norme di riferimento, che il prestatore che fruisce del permesso o del congedo dovrebbe trascorrere, senza interruzioni, l’intera giornata accanto al disabile (e non solo con riferimento allo scarto temporale relativo dell’orario lavorativo), senza potersi dedicare a quelle che sono le proprie necessità, siano esse di svago o varie incombenze quotidiane, incorrendo sempre in un uso improprio della prestazione assistenziale (sul punto, si veda Cass. 31.01.2017, n. 2600, in Il Foro it. Rep., 2017, n. 19).

Rilievi conclusivi

Tanto premesso in ordine agli orientamenti esistenti sull’abuso della fruizione dei permessi ex art. 33, L. n. 104/92, occorre comprendere come la Suprema Corte, nel caso di specie, abbia risolto la vicenda posta al proprio vaglio.

La Cassazione, con la sentenza in commento, ha confermato la decisione della Corte territoriale affermando che, per pacifica giurisprudenza, può costituire giusta causa di licenziamento solo l’utilizzo di permessi ex lege n. 104 del 1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso.

Afferma ancora la Cassazione che “in coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile”.

Sempre in ragione di quanto affermato nella decisione de qua, la disposizione in parola non consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la stessa norma è preordinata. Il beneficio accordato per legge al lavoratore “comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela”.

Quindi, la condotta del lavoratore può essere sanzionata ove manchi del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile. In tal caso, a parere dei giudici di legittimità, “non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto”.

La Cassazione, tuttavia, nella vicenda de qua non ha ritenuto che ricorressero gli estremi dell’abuso del diritto. In particolare, osservano gli ermellini, che in relazione ai giorni dell’8 e del 31 maggio 2019, la società ricorrente non ha tenuto conto di quanto effettivamente accertato e valutato dalla Corte di merito che ha giudicato pacifico che, in entrambe le giornate, la lavoratrice “si sia recata presso il luogo di residenza della madre e che ivi sia rimasta per tre ore e mezza il primo giorno e per circa cinque ore e mezza il secondo”.

La Suprema Corte, comunque, ha rilevato che la censura fosse priva di fondamento perché la decisione gravata risultava conforme ai principi di diritto enunciati dai giudici di legittimità in relazione ai permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, così come delineati nelle pagine precedenti.

In conclusione, la Cassazione ha osservato, al fine di corroborare il proprio pronunciamento, che tali principi, come sin qui illustrati, sono stati confermati recentemente anche da Cass. 24 agosto 2022, n. 25290, relativa ad un caso analogo, in cui è stato messo in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese) e non su base oraria o cronometrica.