Deciso revirement della Cassazione: la sede sindacale è fondamentale per l’efficacia della conciliazione

di Eugenio Erario Boccafurni*

* Le valutazioni espresse sono personali e non rappresentano il punto di vista dell’Ente di appartenenza

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Accade che talune interpretazioni giurisprudenziali di legittimità – oramai considerate acquisite e connaturali alla norma legale interpretata – mutino in maniera netta e repentina.

Un simile revirement ha riguardato, di recente, uno degli architravi dell’intero ordinamento giuslavorista, ovvero l’art. 2113 c.c., che novella una disciplina speciale per rinunce e transazioni del dipendente aventi ad oggetto diritti previsti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi.

Con l’ordinanza n. 10065/2024, la Suprema Corte ha stabilito che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c. non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.

Quest’ultima pronuncia si pone in aperto contrasto con le recenti sentenze della Cassazione nn. 25796/2023 e 1975/2024, alla luce delle quali si era portati a ritenere che tali conciliazioni potevano essere sottoscritte in luoghi diversi (dunque non tecnicamente “protetti”) rispetto a quanto indicato dall’art. 2113 c.c. (ultimo comma), a condizione che si avesse certezza circa l’avvenuta “concreta ed effettiva” assistenza sindacale a favore del prestatore di lavoro.

Secondo il consolidato arresto di legittimità, dunque, era l’effettività dell’assistenza prestata dal sindacalista al momento dell’atto abdicativo del lavoratore a “proteggere” il consenso prestato da quest’ultimo, dalla metus del contraente “forte” e/o dalla incapacità di comprendere a pieno gli effetti legali dell’atto posto in essere e il complesso dei propri diritti oggetto di dismissione.

A tal proposito, l’ordinanza della Cassazione n. 1975 del 18.01.2024, nel ritenere uno studio oculistico luogo idoneo a disporre dei propri diritti, attesa la prova raggiunta circa l’effettività dell’assistenza del sindacalista, aveva ritenuto che «la necessità (derivante dal combinato disposto dell’art. 412 ter c.p.c. e del contratto collettivo di volta in volta applicabile) che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del lavoratore. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale (nella specie, presso uno studio oculistico: v. ricorso per cassazione, p. 12) non produce alcun effetto invalidante sulla transazione».

Prima di concentrarsi sulla pronuncia oggetto di commento, si ricorda che la transazione in sede sindacale, per essere valida, necessita dell’effettività di assistenza da parte del conciliatore, al quale il lavoratore conferisce – implicitamente o esplicitamente – mandato (Cfr. Cass. nn. 16154/2021; 21617/2018; 24024/2013).

Tale “effettività di assistenza” inerisce al ruolo attribuito dalla legge al conciliatore, il quale, proprio in considerazione della non impugnabilità della transazione (quarto comma dell’art. 2113 c.c.), deve assicurarsi che il lavoratore sia pienamente informato (rectius: consapevole «di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura» Cass. n. 24024/2013) dei diritti maturati e in via di dismissione, oltre che essere garante dell’assenza di costrizione morale ed economica del contraente debole.

In altri termini, l’effettività dell’assistenza del sindacalista è idonea a sottrarre il lavoratore «da quella condizione di inferiorità che, secondo la mens legis, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi» (Cass. n. 16154/2021), e la mera compresenza del rappresentante dei lavoratori è solo un indice presuntivo di quest’ultima, non essendo di per sé capace ad esaurire l’indagine circa la sussistenza di tale garanzia di assistenza ed affidabilità dell’azione esercitata in sede protetta.

Chiarito quanto precede, secondo l’ordinanza della Cassazione n. 10065/2024, in un caso in cui il lavoratore, assistito dal sindacalista, aveva transatto presso i locali aziendali, ha fatto presente che gli artt. 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c. non si limitano ad individuare gli organi dinanzi ai quali possono svolgersi le conciliazioni ma anche le sedi – intese come luoghi fisici – presso le quali possono avvenire.

Pertanto, il riferimento alla «sede sindacale» di cui all’art. 411 c.p.c. non può consentire di annoverare la sede aziendale fra le sedi protette, anche se alla conciliazione è presente un rappresentante sindacale: «Il legislatore ha ritenuto necessaria una forma peculiare di “protezione” del lavoratore, realizzata attraverso la previsione dell’invalidità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili e l’introduzione di un termine di decadenza per l’impugnativa, così da riservare al lavoratore la possibilità di riflettere sulla convenienza dell’atto compiuto e di ricevere consigli al riguardo (così Cass. n. 11167 del 1991 in motivazione). Tale forma di protezione giuridica è non necessaria (art. 2113, ultimo comma c.c.) in presenza di adeguate garanzie costituite dall’intervento di organi pubblici qualificati, operanti in sedi cd. protette. Le disposizioni richiamate dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. individuano quali sedi c.d. protette, la sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.), le commissioni di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro, ora Ispettorato Territoriale del Lavoro (art. 410 e 411, commi 1 e 2, comma c.p.c.), le sedi sindacali (art. 411, comma 3, c.p.c.), oltre ai collegi di conciliazione e arbitrato (art. 412 ter e quater c.p.c.)».

Sicché, «I luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di lavoratore un ambiente neutro, estraneo al all’influenza della controparte datoriale (non depone in senso contrario Cass. n. 1975 del 2024, concernente una conciliazione ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c.). Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso principale, dovendosi ribadire che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore».