Il licenziamento per la ridotta capacità lavorativa è discriminatorio: il collegamento funzionale tra situazione di handicap, accomodamenti ragionevoli e repêchage

Nota a Corte di cassazione, Sez. Lav., ordinanza 13 novembre 2023, n. 31471 – Pres. Doronzo – Rel. Panariello

di Michelangelo Salvagni

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Non costituisce un giustificato motivo oggettivo la ragione meramente economica di una diminuzione delle capacità lavorative del dipendente divenuto non idoneo alla mansione, in quanto “la ridotta capacità produttiva rispetto a quella degli altri lavoratori impiegati in mansioni identiche verrebbe altrimenti a rappresentare una discriminazione vietata (Massima a cura dell’A.)

Sommario:

1. Considerazioni preliminari.

2. Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: i precedenti giurisprudenziali.

3. La fattispecie fattuale: l’inidoneità alla mansione e l’obbligo di accomodamenti ragionevoli.

4. Si può licenziare perché il lavoratore disabile produce solo 40 pezzi al giorno invece che 70 al pari degli altri prestatori? Ridotta capacità lavorativa e natura discriminatoria del recesso.

1. Considerazioni preliminari.

Va preliminarmente osservato che l’oggetto dell’ordinanza in annotazione riguarda una questione processuale, ossia se fosse stato rispettato, nel giudizio di secondo grado, il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunziato. In breve, questi i motivi di censura. Una società ricorreva in cassazione lamentando la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la Corte territoriale aveva qualificato il licenziamento, irrogato per inidoneità alla mansione, come discriminatorio per ragioni di handicap, non avvedendosiche, invece, il lavoratore aveva invocato solo la illegittimità del recesso e quindi la reintegrazione c.d. attenuata ex art. 18, commi 7 e 4, L. n. 300/70. Conseguentemente, lamentava la violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per avere i giudici di merito rilevato d’ufficio la questione della nullità senza, tuttavia, sottoporla al previo contraddittorio delle parti. Le statuizioni della Suprema Corte, pertanto, risolvono una questione processuale ma il provvedimento è di particolare interesse per la vicenda fattuale sottesa e per i principi espressi in materia di discriminazione dai giudici di merito, statuizioni alle quali la Cassazione aderisce. I giudici di legittimità risolvono quindi la tematica affermando che era stato rispettato il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunziato in quanto la Corte di appello, con riguardo al gravame del datore per far dichiarare la legittimità del recesso per sussistenza del giustificato motivo oggettivo, aveva respinto la domanda “limitandosi a confermare la decisione di primo grado – sia pure con un’integrazione della relativa motivazione – e, quindi, la tutela per il licenziamento annullabile ed annullato”. In merito, la Cassazione conclude che, anche se la questione della discriminatorietà del motivo è stata affrontata d’ufficio dalla Corte territoriale, essa però si fonda sui medesimi fatti acquisiti al processo, ciò determinando il pieno rispetto del contraddittorio.

2. Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: i precedenti giurisprudenziali.

L’ordinanza in annotazione consente di effettuare alcune considerazioni su una fattispecie che, sempre più, assume una rilevanza fondamentale per i principi espressi dalla giurisprudenza a tutela del portatore di handicap. Il caso è quello di un lavoratore licenziato a causa della sopravvenuta impossibilità della prestazione a seguito di un giudizio di inidoneità alle mansioni. In merito, si deve partire da quel provvedimento della Cassazione a Sezioni Unite n. 7755 del 1998 (in Riv. it. dir. lav., 1, 1999, II, 170, con nota di G. Pera, nonché in Mass. giur. lav.,1998, 876) i cui principi assurgono a vera e propria “stella polare” in materia di recesso del disabile per impossibilità sopravvenuta della prestazione. Al riguardo, occorre evidenziare che, anche in virtù delle disposizioni degli articoli 4 e 10 della L. n. 68 del 1999 (che afferiscono alle norme poste a tutela delle persone affette da invalidità), il recesso per sopravvenuta inidoneità alla mansione configura giustificato motivo oggettivo di licenziamento. La Suprema Corte, con le sentenze del 19.3.2018, n. 6798 e, successivamente, del 22.10.2018, n. 26675 (in Riv. giur. lav., n. 2, II, 2019, con nota di M. Salvagni, Licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage, 244 e ss.), si era già occupata della questione inerente al rapporto di lavoro dei prestatori affetti da uno stato di inidoneità alla mansione a causa delle proprie patologie. Secondo quanto stabilito da tali ultimi arresti, il rapporto può essere risolto solo allorché il datore dimostri di aver attuato tutti i possibili adattamenti all’organizzazione del lavoro e che sia impossibile reinserirlo nel contesto produttivo. I citati provvedimenti di cassazione poi, nell’aderire all’indirizzo della Suprema Corte del 02.05.2018 n. 10435 in tema di repêchage (in LPO, 2018, 7-8, II, 481, con nota di M. Salvagni, La Cassazione in funzione nomofilattica: l’obbligo di repêchage fa parte del fatto e la sua violazione può comportare l’applicazione della tutela reale; cfr. anche M. T. Carinci, in Riv. giur. lav., 2018, 4, II, 459), affermavano che era possibile un’applicazione, in via analogica, dei principi ivi espressi anche con riferimento all’obbligo di reimpiego del dipendente licenziato per sopravvenuta inidoneità alla mansione. In concreto, costituisce violazione dell’obbligo datoriale di ricollocazione la mancata adibizione del lavoratore a mansioni alternative, anche inferiori, a cui il medesimo risulti idoneo compatibilmente con il suo stato di salute. Al riguardo, i giudici di legittimità negli arresti del 2018 e del 2019, richiamando appunto il suddetto orientamento del 02.05.2018 n. 10435 in tema di obbligo di ripescaggio e tutela reale, avevano affermato che “costituirebbe una grave aporia sistematica ritenere che la violazione dell’obbligo di repêchage possa determinare una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici e precluderla invece nel caso di lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica”.

3. La fattispecie fattuale: l’inidoneità alla mansione e l’obbligo di accomodamenti ragionevoli.

La vicenda in commento tratta il caso di un prestatore licenziato per “sopraggiunta inidoneità alla mansione” di collaudatore di prodotti in ceramica. Il lavoratore deduceva invece di essere ancora idoneo, anche se con alcune limitazioni, ed instaurava il giudizio presso il Tribunale di Viterbo per chiedere l’accertamento dell’illegittimità del recesso. Il giudice della Tuscia, a seguito della fase c.d. sommaria, annullava il licenziamento e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro. Sul punto, il giudice affermava che la ridotta capacità lavorativa derivante dalle prescrizioni dettate dal medico competente non poteva determinare il licenziamento, atteso l’obbligo datoriale di dare attuazione alle predette prescrizioni anche a discapito della sua convenienza economica. Successivamente, la Corte d’Appello di Roma rigettava il reclamo proposto dalla società affermando che “la materia della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore deve essere trattata in base alla più recente normativa nazionale e comunitaria, tesa a tutelare il dipendente che si trovi in condizione di handicap nella nozione comunitaria del termine, desumibile dalla direttiva n. 78/2000/CE del 27/11/2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione, sussistendo sia il presupposto oggettivo dell’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, sia il fattore soggettivo dell’handicap”. Sempre secondo la Corte territoriale, la fattispecie del lavoratore che non sia più idoneo alla mansione a causa delle proprie patologie configura una situazione di duratura menomazione che lo pone in una condizione di non uguaglianza con gli altri lavoratori. In tale contesto fattuale, trova quindi applicazione l’art. 5 della direttiva 78/2000 che prevede “soluzioni ragionevoli”, con l’unica eccezione del caso in cui tali soluzioni “richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”. In merito alla salvaguardia del posto di lavoro, la Corte di appello richiamava gli accomodamenti ragionevoli previsti dall’art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, secondo cui “i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convezione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 38, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”. Accomodamenti ragionevoli sui quali prende posizione anche l’ordinanza di cassazione in esame osservando che gli stessi, in astratto, “possono consistere anche nell’adibizione del lavoratore a diverse mansioni, pure inferiori, i quali vengono meno solo laddove comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro (Cass. n. 6497/2021)”.

4. Si può licenziare perché il lavoratore disabile produce solo 40 pezzi al giorno invece che 70 al pari degli altri prestatori? Ridotta capacità lavorativa e natura discriminatoria del recesso.

In ragione di tali principi, la Corte di appello affermava che, proprio alla stregua della normativa comunitaria e nazionale, vige un tendenziale principio di divieto di licenziamento del lavoratore divenuto disabile, dovendo il datore di lavoro cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli idonei a consentire di svolgere il lavoro (in questo senso i giudici richiamano proprio i precedenti di Cass. n. 6798/2018 e di Cass. n. 27502/2019). Nell’ambito di tali accomodamenti ragionevoli, tesi alla salvaguardia del posto di lavoro, la Corte territoriale riteneva che, nel caso di specie, la società non aveva adottato tali soluzioni per consentire al prestatore di continuare a svolgere le mansioni di collaudatore di piatti doccia. In concreto, a parere dei giudici di merito, gli accomodamenti ragionevoli non erano eccessivamente onerosi in quanto non comportavano “modifiche dei luoghi produttivi, né mutamenti organizzativi, né costi aggiuntivi, dovendo la società unicamente consentire al B. di effettuare pause – rispetto a quelle ordinarie – di ulteriori 15 minuti dopo ogni due ore continuative di lavoro e l’adozione di mascherina respiratoria per le operazioni che comportino maggiore dispersione di polveri”.

La Corte capitolina infine, nel concludere il proprio ragionamento, stabiliva un rilevante principio di natura antidiscriminatoria con riferimento alle ragioni poste alla base del recesso.

La società aveva affermato, per giustificare il licenziamento, che il prestatore inidoneo alla mansione non avrebbe potuto produrre, al giorno, gli stessi pezzi dei suoi colleghi di lavoro non affetti da alcuna patologia (nella specie, solo 40 pezzi al giorno, anzichè i 70 prodotti dagli altri dipendenti). Al riguardo, la Corte di appello osservava che non costituisce un giustificato motivo oggettivo la ragione meramente economica di una diminuzione delle capacità lavorative del dipendente divenuto non idoneo alla mansione, in quanto “la ridotta capacità produttiva rispetto a quella degli altri lavoratori impiegati in mansioni identiche verrebbe altrimenti a rappresentare una discriminazione vietata”.