La deduzione dell’aliunde percipiendum anche nel licenziamento ritorsivo*
La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 2 febbraio 2023, nel dichiarare la nullità di un licenziamento per motivo illecito determinante, ai sensi dell’art. 2 del D.lgs. n. 23/2015, ha inteso limitare la tutela risarcitoria accessoria sia in riferimento all’aliunde perceptum del lavoratore, sia in per quel che concerne l’aliunde “percipiendum”.
Si tratta di un’interpretazione che va ben oltre il dettato normativo, dal momento che quest’ultimo articolo, al comma 2, prevede unicamente la possibilità per il giudicante di dedurre l’aliunde perceptum: “Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”.
Ed infatti la deducibilità dell’aliunde percipiendum è espressamente novellata (unitamente al perceptum) dal comma 2 dell’art. 3 del D.lgs. n. 23/2015 nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Il Giudice di seconde cure della Corte lombarda ha tuttavia inteso limitare l’indennità risarcitoria in applicazione del principio di cui all’art. 1227, co. 2, c.c. Quest’ultima si ritiene che miri “a colpire condotte non diligenti poste in essere dal creditore successivamente al verificarsi dell’evento dannoso ed esclude il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso della normale diligenza. In particolare, la norma in esame impone al creditore di adottare una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (in tal senso, v. Cass. 22352/21). Il principio in questione è stato applicato anche in caso di risarcimento del danno da illegittimo licenziamento, allorquando risulti che il lavoratore non si sia diligentemente attivato per reperire una nuova occupazione (Cass. 16076/12; Cass. 8006/14)”.
In base a questa argomentazione, osserva il giudicante che la lavoratrice illegittimamente licenziata – rimasta a godere del trattamento NASPI per quasi due anni – non abbia fatto alcunché per reperire una nuova occupazione dopo l’evento espulsivo, “nonostante la stessa abbia affermato di avere una notevole esperienza come impiegata commerciale, avendo lavorato per molti anni nel terziario e nonostante sia un fatto notorio che le condizioni del mercato del lavoro in Lombardia offrano frequentemente nel suddetto settore buone occasioni di lavoro”. Sicché nonostante il tenore letterale del secondo comma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 è stato deciso “di limitare il periodo dell’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino al 30.10.220, ritenendo che un lasso di tempo di 18 mesi risulti nel caso di specie sufficiente per reperire una nuova occupazione”.
La pronuncia in commento appare quindi aver fatto tesoro dei principi consolidati espressi dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo cui “nella determinazione del danno derivante da colpa – tanto contrattuale quanto extracontrattuale – deve tenersi presente l’eventuale vantaggio che il fatto illecito abbia procurato al danneggiato, non potendo il risarcimento risolversi in un lucro indebito” (Cass. 25.10.1965, n. 2248; Cass., 16.6.1969, n. 2145) e che “il danno non deve mai essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso” (Cass., 19.6.1996, n. 5650).
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