Quando si può parlare di dimissioni di fatto del lavoratore?

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Spesso capita che un lavoratore, esasperato oppure no dal contesto lavorativo, adotti dei comportamenti contrastanti con i doveri che incombono su di lui, secondo quanto previsto dal contratto di lavoro individuale e collettivo.

In particolare, capita che il lavoratore, senza addurre alcun motivo e in assenza di qualsivoglia documentazione o certificazione, abbandoni il posto di lavoro e decida di non ripresentarsi più.

Ebbene, tali assenze sono state variamente interpretate dalla Suprema Corte di Cassazione, al fine di verificare quando esse possano integrare un inadempimento agli obblighi incombenti sul lavoratore e quando, invece, no.

Ad esempio, è stato ritenuto dal Supremo Collegio che il lavoratore possa legittimamente rifiutarsi di “eseguire la prestazione, eccependo ai sensi dell’art. 1460 Cod. Civ., l’altrui inadempimento”, ossia l’inadempimento del datore di lavoro, se questi ha mancato di adottare le necessarie misure per la sicurezza e la prevenzione della salute del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav., sent. n. 28353/2021).

Sicché, per i Giudici di legittimità, il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione lavorativa, se del caso anche assentandosi dal lavoro, a fronte di un motivo particolarmente grave, qual è quello di dover prevenire danni alla propria salute.

In assenza di siffatti gravi motivi, l’ingiustificata assenza del lavoratore sul posto di lavoro può essere interpretata – prima ancora che, ricorrendo le condizioni previste dal contratto collettivo volta per volta applicato, come circostanza utile a intimare un licenziamento – come un sostanziale disinteresse del lavoratore medesimo verso la prosecuzione del rapporto di lavoro, volendo anzi il medesimo lavoratore, così agendo, porvi fine.

Coerentemente con questo ragionamento, il datore di lavoro, rilevato che la volontà di porre fine al rapporto di lavoro proviene dal lavoratore, ben può invitare quest’ultimo a rassegnare le proprie formali dimissioni; diversamente, il datore di lavoro sarebbe costretto ad intimare un licenziamento – magari per assenza ingiustificata – che non è suo interesse irrogare, poiché non è sua la volontà di porre fine al rapporto di lavoro.

Queste sono le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Udine (sent. 31 gennaio 2022), il quale ha ritenuto, in un caso, che “pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni”, si poteva ravvisare in capo alla lavoratrice una “volontà dimissiva” comprovata da elementi quali il “mancato rientro dopo le ferie natalizie” e l’aver esternato “la volontà di non proseguire più il rapporto di lavoro con la resistente, comunicando le sue intenzioni alla propria responsabile”, nonché l’essersi assentata dal lavoro “senza poi fornire alcuna giustificazione della sua assenza”, e ciò anche a fronte di specifiche richieste di chiarimenti inviatele dal datore di lavoro.

Tali conclusioni non sono smentite in alcun modo dal fatto che il contratto collettivo e la legge richiedano un atto scritto di dimissioni, nonché la loro convalida in via telematica (DM 15 dicembre 2015): invero, rileva il Giudice udinese, “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”, intendendo tali norme di legge evitare soltanto il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco” (ossia quelle dimissioni che vengono estorte al lavoratore già al momento della firma del contratto di lavoro, solitamente facendo firmare un foglio – appunto – “in bianco”) e nulla di più.

Aderire alla tesi opposta, ossia alla tesi per cui il datore di lavoro sarebbe sempre e comunque costretto a intimare un licenziamento a fronte della reiterata e ingiustificata assenza di un dipendente, significherebbe imporre “al datore di lavoro di farsi carico dei rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) e dei costi (il c.d. ticket NASPI)” che non è suo onere accollarsi.

La soluzione offerta dal Tribunale di Udine non costituisce un episodio isolato: il medesimo Tribunale, infatti, aveva già sposato la medesima tesi con la precedente sent. n. 106/2020. Con ciò, dunque, confermando un principio di giustizia sostanziale rispetto al quale, confidiamo, sarà difficile discostarsi.

A cura di Marasco Law Firm