È nullo, ai sensi dell’art. 1344 c.c., il cosiddetto “doppio licenziamento” inquanto realizza una finalità illecita
La Cassazione, con la recente ordinanza n. 7400 del 7 marzo 2022, confermando l’indirizzo già
espresso in occasione di una precedente pronuncia (la n. 808 del 16.01.2020), ha ribadito il
principio in forza del quale il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo disposto
per gli stessi motivi già addotti a fondamento della precedente procedura collettiva realizza uno
schema fraudolento ai sensi dell’art. 1344 c.c., ravvisabile tutte le volte in cui la causa tipica
dell’atto negoziale, di per sé lecita, venga di fatto “piegata” alla realizzazione di una finalità illecita
in quanto elusiva di una norma imperativa.
In altri termini, al datore di lavoro è precluso tornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla
collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero ai criteri di scelta,
attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali le cui le ragioni giustificative, invece (e
questo è il tema centrale della questione), devono essere individuate in situazioni di fatto
necessariamente diverse da quelle poste a sostegno della procedura collettiva.
Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato la citata sentenza n. 808/2020, in occasione della
quale, con motivazione maggiormente esplicativa, avevano ritenuto che il c.d. “doppio
licenziamento” fosse illegittimo, non già quindi radicalmente nullo, sulla base di talune specifiche
argomentazioni. Innanzitutto, si osservava che si tratterebbe di fattispecie ontologicamente distinte,
aventi presupposti diversi e soggette anche a regole processuali completamente differenti.
Il licenziamento collettivo, infatti, esclude ogni sindacato giudiziale in merito alle ragioni del
recesso, consentendo il solo controllo circa la regolarità procedurale e la corretta applicazione dei
criteri di scelta; al contrario, il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo implica
un controllo giudiziale in ordine all’effettività dei motivi addotti a sostegno del recesso. Ne
consegue, pertanto, che, ove il lavoratore venga licenziato all’esito di una procedura collettiva ex
* Avvocato del Foro di Roma.lege n. 223/1991, non possono trovare ingresso “le censure con le quali si investa l’autorità
giudiziaria di un’indagine sulla presenza di «effettive» esigenze di riduzione o trasformazione
dell’attività produttiva” in quanto non sindacabili, se non nell’ambito e nei limiti del preventivo
confronto sindacale.
Una diversa conclusione colliderebbe, peraltro, con l’art. 41 Cost. in quanto la libertà di iniziativa
economica riconosciuta al datore di lavoro incontra pur sempre un limite nella necessaria
finalizzazione al conseguimento dell’utilità sociale. Senza contare che, osservavano i giudici di
legittimità, “porrebbe seri dubbi di conformità dell’ordinamento nazionale alla direttiva 98/59/CE
(che codifica il testo della direttiva 75/129/CEE) — considerando numero dodici ed articolo 2,
paragrafo 3— sotto il profilo del conseguimento dell’effetto utile”.
Appare interessante segnalare, ai fini di una completa disamina della fattispecie in esame, il tipo di
soluzione interpretativa adottata dalla giurisprudenza di merito nel solco delle precedenti
argomentazioni della Suprema Corte nell’arresto del 2020. Ed infatti, il Tribunale di Latina, con due
sentenze emesse nei mesi di ottobre e novembre 2020 (in particolare, si veda Trib. Latina, del
30.11.2020, Est. Avarello, pubblicata in CSDNRoma on-line, con commento di Nicole Piperno)
dopo aver qualificato il recesso come collettivo, ne ha dichiarato l’illegittimità per violazione dei
criteri di scelta. I giudici pontini, proprio in considerazione dei principi espressi dalla Cassazione,
hanno evidenziato che la ratio della Legge n. 223/191 consiste nel procedimentalizzare il
licenziamento collettivo al fine di consentire un controllo preventivo sui criteri di scelta
concretamente adoperati dal datore per individuare i lavoratori da estromettere; scopo che viene
sostanzialmente “frustrato” laddove l’azienda, esperita la procedura, provveda successivamente ad
irrogare plurimi licenziamenti individuali sulla base delle medesime ragioni in virtù delle quali
aveva dato avvio alla procedura.
Tornando al provvedimento in annotazione, la Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, si
spinge oltre le maglie della mera illegittimità giungendo a qualificare il “doppio licenziamento”
come radicalmente nullo in quanto in frode alla legge ex art. 1344 c.c.
Corollario del ragionamento decisorio dei giudici di legittimità è quello secondo cui l’identità delle
ragioni addotte a fondamento del licenziamento collettivo, e dei successivi licenziamenti individuali
per giustificato motivo oggettivo, si traduce nella sostanziale elusione delle garanzie procedimentali
apprestate dalla Legge n. 223/1991, che impongono di sottoporre le ragioni del recesso ed i criteri di
scelta al vaglio e al confronto preventivo con il sindacato. Elusione che si realizzerebbe qualora,
all’esito della gestione procedimentalizzata dei motivi di riduzione del personale, si consentisse al
singolo datore di lavoro di utilizzare quegli stessi motivi per irrogare dei licenziamenti individuali,
così sottraendoli al confronto con le parti sociali