Riorganizzazione aziendale e illegittimità del trasferimento che comporta una dequalificazione professionale. la società deve provare il nesso di causalità con il criterio di scelta del lavoratore anche nella sede di destinazione.
La sentenza in commento (C. App. Roma, sent. 23.02.2022, n. 189 – est. Di Sario) appare di rilevante interesse in quanto conferma una delle prime sentenze intervenute, a seguito della novella introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015, in tema di interpretazione del trasferimento del lavoratore che, in ragione di un’asserita riorganizzazione aziendale, aveva subito nella sede di assegnazione una grave dequalificazione professionale ex art. 2103 c.c., in quanto adibito a mansioni riferibili almeno a cinque livelli inferiori rispetto a quello di appartenenza.
Il precedente provvedimento, oggetto di annotazione in questa Rivista (in merito, si veda: P. De Marco, Sulla modifica unilaterale in peius delle mansioni dopo il Jobs Act e sulle prospettive di concreto utilizzo, a fronte dei presupposti formali e sostanziali di cui all’art. 2103 c.c.. commi 1 e 5, c.c., in Lavoro e prev. oggi, 2019, 3-4, 216 e ss.) aveva infatti statuito l’illegittimità della variazione in pejus delle mansioni disposta nei confronti del prestatore, affermando che l’onere della prova dell’esattezza dell’adempimento incombeva sulla parte datoriale convenuta in giudizio.
Uno dei punti di maggiore interesse della precedente sentenza si sostanziava proprio nel fatto di aver accertato che il datore di lavoro non avesse effettuato una comunicazione al lavoratore potenzialmente idonea a giustificare il demansionamento emerso in giudizio, rilevando che la fattispecie dell’art. 2103, comma 2, c.c. necessitasse invece di una formalizzazione per iscritto a pena di nullità, stante la previsione espressa contenuta nel comma 5 della medesima disposizione.
In ogni caso, il Tribunale aveva riscontrato che le mansioni espletate dal lavoratore presso la nuova sede di destinazione erano di almeno cinque livelli inferiori a quelle proprie dell’ottavo livello di inquadramento posseduto dall’interessato, dovendosi del tutto escludere un legittimo esercizio dello ius variandi da parte della società convenuta.
La Corte d’appello di Roma, nel rigettare l’appello proposto dalla società, ha confermato la sentenza del 23 gennaio 2019, n. 639, con cui il Tribunale capitolino aveva riconosciuto la nullità del trasferimento di un lavoratore e della relativa assegnazione a mansioni inferiori, con condanna del datore di lavoro a risarcire il danno morale e il danno professionale subiti e quantificati sino alla sentenza.
La Corte territoriale, infatti, ha disatteso le censure articolate dalla società in sede di gravame e ha ritenuto illegittimo il trasferimento unilateralmente disposto nei confronti del dipendente in ragione dell’asserita riorganizzazione aziendale addotta a fondamento di tale provvedimento; in particolare, la Corte ha rilevato l’omessa dimostrazione, da parte della società, delle ragioni tecnico-organizzative richieste dall’art. 2103 c.c. relative alla sede di provenienza del lavoratore.
Inoltre, nell’evidenziare un ulteriore profilo di illegittimità del trasferimento impugnato e inficiante lo stesso criterio adottato dalla società nella scelta del personale da trasferire, il Collegio ha aggiunto che: «la datrice di lavoro non si è limitata a coprire un posto rimasto scoperto nella sede di destinazione, ma ha operato tale copertura mediante il grave demansionamento dell’appellato […] Le ragioni tecnico, organizzative e produttive che legittimano ex art. 2103 c.c. il trasferimento di un lavoratore devono essere prima ancora che comprovate, legittime, ma nella specie difetta proprio questo secondo imprescindibile requisito».
A parere dei giudici di secondo grado il trasferimento appare illegittimo per l’errato criterio di scelta operato nei confronti del lavoratore visto che, in concreto, la posizione che il medesimo è andato a ricoprire in sostituzione di altro prestatore andato in pensione prevedeva lo svolgimento di mansioni significativamente inferiori. La società in merito non ha dimostrato, come eccepito puntualmente dalla difesa del lavoratore, perché la scelta del trasferimento fosse ricaduta proprio sul ricorrente che, pacificamente, rivestiva una qualifica superiore rispetto alla dipendente sostituita.
In tal senso, la Corte d’appello di Roma ha altresì confermato l’accertamento della dequalificazione professionale subita dal lavoratore a seguito del trasferimento.
In particolare, la Corte ha ritenuto l’illegittimità dell’adibizione del lavoratore allo svolgimento di mansioni di operaio addetto alle spedizioni, in quanto inferiori rispetto a quelle di infografico e impaginatore precedentemente espletate e in alcun modo riconducibili all’8° livello posseduto.
Il Collegio ha rigettato finanche la censura avente ad oggetto la condanna della società al risarcimento del danno professionale e morale, il quale era stato originariamente liquidato non già con riferimento al periodo limitato al deposito del ricorso, bensì sino alla pronuncia della sentenza di primo grado, con integrale ristoro del pregiudizio subito durante l’intero periodo di dequalificazione professionale del lavoratore (di oltre tre anni). In tal senso, il Collegio ha aderito all’interpretazione della giurisprudenza di Cassazione (cfr. Cass. n. 31558/2021) secondo cui la violazione dell’art. 2103 c.c. deve qualificarsi come illecito permanente, sicché il protrarsi dello stesso è addebitabile esclusivamente al datore di lavoro che ben poteva far cessare la condotta contra ius.