La diligenza del dirigente nella recente giurisprudenza di legittimità

Come noto, il dirigente rappresenta l’alter ego, ossia il “sostituto” o il “preposto”, dell’imprenditore e per tale motivo – stante l’ampiezza e l’importanza delle funzioni ricoperte – coincide con il vertice dell’organizzazione della forza lavoro in azienda (cfr. art. 2095 Cod. Civ.).

Proprio per questo motivo, la giurisprudenza è ormai unanime nel richiedere al dirigente una particolare precisione e diligenza nel rispetto dei propri doveri, che non si esauriscono nella corretta gestione della società o della parte di società loro affidate, bensì anche nel modo in cui vengono tenuti i rapporti con i vertici societari.

Invero, secondo la dottrina e la giurisprudenza, il tratto realmente distintivo della figura del dirigente consiste nell’elevato grado di fiducia che l’imprenditore deve poter riporre in essa. Tant’è che il venir meno di siffatta fiducia determina l’insorgere – con particolare riferimento ai dirigenti assunti con contratto di lavoro subordinato – di una peculiare ipotesi di cessazione del rapporto lavorativo denominata “giustificatezza”, del tutto diversa dalle canoniche ipotesi di licenziamento (vale a dire: per giustificato motivo oggettivo; per giustificato motivo soggettivo; per giusta causa).

Peraltro, il venir meno del requisito della fiducia può anche essere determinato da atteggiamenti apertamente ostili e/o contrappositivi del dirigente rispetto alla linea imprenditoriale, i quali – proprio in considerazione della natura del dirigente quale alter ego dell’imprenditore – non possono essere confinati nell’ambito del c.d. “diritto di critica” che la giurisprudenza riconosce a qualsiasi dipendente.

Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. Lav., ord. n. 2246/2022) ha recentemente statuito la fondatezza del recesso intimato da una società datrice di lavoro a un proprio dirigente che, a mezzo email, aveva esternato ai propri vertici le seguenti parole: “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”. In particolare, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che una simile circostanza fosse idonea a determinare un “turbamento del vincolo fiduciario, tanto più intenso quanto più elevato il ruolo (dirigenziale) del dipendente” e, quindi, un motivo più che “giustificato” per provocare l’interruzione del rapporto di lavoro in corso tra le parti.

Va detto, però, che la cessazione del rapporto di lavoro non è, per così dire, l’unica “reazione” che un datore di lavoro può adottare nei confronti di un proprio dirigente, a maggior ragione se questo dirigente ricopre posizioni di vertice (c.d. “dirigente apicale”) o se è addirittura amministratore della società. In queste ipotesi, infatti, vi sono altre forme di tutela ancora avverso il negligente operato del dirigente, che consistono nella privazione del compenso pattuito con il dirigente, e ciò anche laddove tale compenso sia stato incorporato in apposita delibera assembleare.

E così, in un altro caso abbastanza recente, sempre la Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 29252/2021) ha ritenuto che la violazione dei doveri di corretta gestione societaria da parte del dirigente-amministratore di una società a responsabilità limitata può legittimare, laddove il dirigente agisca in giudizio per il pagamento del compenso ancora dovutogli, l’esperimento di un’eccezione di inadempimento da parte della società: in sostanza, la società può rifiutarsi di erogare il compenso al dirigente adducendo proprio gli errori o le mancanze che questi ha commesso durante il suo periodo di gestione societaria.

Infatti, affermano i Giudici di legittimità, “la remunerazione dell’amministratore si pone in rapporto di dipendenza diretta con il corretto espletamento delle funzioni determinate dalla legge e dal contratto sociale”, di modo che “il pagamento del compenso non può ontologicamente restare indifferente alle possibili anomalie nell’adempimento dei relativi obblighi di fonte eterodeterminata, dovendosi perciò escludere ogni preteso automatismo nel suo riconoscimento. In tal senso risulta giustificata l’estensione, al rapporto remuneratorio intercorrente tra amministratore e società, del rimedio che l’art. 1460 Cod. Civ. ha istituito per rafforzare l’obbligo di adempimento delle obbligazioni nei contesti di corrispettività, anche se solo di natura lato sensu contrattuale”.

Quanto precede, tra l’altro, senza che la società debba previamente esperire, nei confronti del dirigente-amministratore negligente, la specifica azione di responsabilità prevista dall’art. 2476 Cod. Civ..

Da qui, in estrema sintesi, l’enunciazione del principio di diritto secondo cui «In tema di compenso spettante all’amministratore di società a responsabilità limitata, la società può far valere in via di eccezione riconvenzionale, ai sensi degli art. 1218 e 1460 c.c., l’inadempimento o il non corretto adempimento degli obblighi assunti dall’amministratore in osservanza dei doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo, la cui violazione integra la responsabilità di tipo contrattuale ex art. 2476, 1° comma, c.c., non venendo in rilievo, a tali fini, il rapporto societario di immedesimazione organica esistente, verso l’esterno, tra amministratore e società, bensì il nesso sinallagmatico, tipico del rapporto contrattuale, intercorrente tra il corretto svolgimento dell’attività di gestione dell’impresa e la maturazione del diritto al compenso in capo all’amministratore medesimo».

Si tratta, indubbiamente, di due pronunce interessanti, volte a fare luce su un tema, qual è l’ambito di operatività di un dirigente e la verifica del corretto adempimento dei doveri su di esso gravanti e in merito ai quali, stante l’elevata autonomia di cui gode il dirigente (soprattutto se apicale o amministratore), sussiste ancora qualche incertezza operativa.

A cura di Marasco Law Firm