Subordinazione e associazione in partecipazione: due rapporti a confronto
Con sentenza n. 522/2021, pubblicata il 20.06.2021 il Tribunale di Genova (in persona del Dott. Alessandro Barenghi), ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore il quale, convenuto in giudizio l’ex datore di lavoro (proprietario di un negozio di telefonia), ha chiesto accertarsi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in luogo del rapporto di associazione in partecipazione (in thesi fittiziamente stipulato), con la conseguente richiesta di condanna al pagamento delle relative differenze retributive.
La società datrice di lavoro ha resistito in giudizio deducendo la sussistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, assumendo che ne fosse stata data prova scritta attraverso la sottoscrizione del contratto in presenza di due testimoni e che il ricorrente avesse, nel corso del rapporto di lavoro, provveduto anche alla ricerca e assunzione del personale.
La sentenza in commento affronta il generale tema della differenza tra contratto di lavoro subordinato e contratto di associazione in partecipazione.
Sul punto occorre in primo luogo svolgere una breve premessa.
L’associazione in partecipazione viene definita come il contratto con il quale l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (art 2549 c.c.).
Inizialmente tale “apporto” poteva anche concretizzarsi in una prestazione lavorativa resa dall’associato e configurava di fatto quella che veniva chiamata “associazione in partecipazione con apporto di lavoro”.
Da qui l’uso improprio di detta figura contrattuale di chi voleva utilizzare una prestazione lavorativa senza essere assoggettato alla serrata disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Si è così reso necessario intervenire attraverso modifiche legislative che fossero idonee a distinguere le due figure contrattuali e che ponessero un limite ai sempre più frequenti tentativi di elusione della normativa in materia di associazione in partecipazione.
La prima importante riforma risale alla l. 92/2012 (Riforma Fornero) la quale ha stabilito che “i rapporti di associazione in partecipazione instaurati o attuati senza che vi sia stata effettiva partecipazione agli utili dell’impreso o dell’affare, ovvero senza consegna del rendiconto di cui all’art. 2552 c.c. si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Con il Jobs Act, è stata poi espressamente abrogata la figura dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro: dall’entrata in vigore della normativa nel 2015 qualora l’associato sia una persona fisica, l’apporto fornito non può più consistere nemmeno in parte con una prestazione di lavoro.
Oggi, quindi, l’apporto fornito da un associato persona fisica può essere soltanto un apporto di capitale e qualora l’associato agisca invece in forma societaria anche da una prestazione di un’opera o di un servizio.
Il legislatore del 2015 aveva da ultimo stabilito che i contratti già in essere all’entrata in vigore della riforma restassero validi fino alla naturale cessazione e quindi assoggettati alla disciplina ratione temporis vigente.
Per tali tipi di rapporti, la giurisprudenza è pertanto ancora chiamata a intervenire a tutela del lavoratore, parte debole del rapporto di lavoro, che sia stato assunto in vigenza della vecchia normativa con un contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro (che simuli nei fatti un contratto di lavoro subordinato).
Giova a questo punto ricordare che nel caso di specie il lavoratore assunto con contratto sottoscritto ante riforma ha reclamato la qualificazione subordinata del rapporto, cui le parti al momento della sottoscrizione avevano invece attribuito la natura di associazione in partecipazione.
La resistente, come detto, ha sostanzialmente basato la propria difesa su due punti: l’esistenza di un contratto scritto e la circostanza che il lavoratore avesse nel tempo anche provveduto alla ricerca e assunzione del personale.
Il Giudice ha accolto il ricorso condannando l’ex datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive individuate nella CTU contabile.
Il Tribunale ha sostenuto in primo luogo che l’esistenza di un contratto scritto non presentasse alcuna rilevanza ai fini difensivi essendo per il Giudice necessario, come noto, indagare la reale ed effettiva volontà delle parti contraenti al di là del nomen iuris dato al momento della sottoscrizione del contratto e di conseguenza esaminare le modalità concrete di attuazione del rapporto.
Così la Cassazione: Al fine di stabilire se lo svolgimento di prestazioni lavorative sia riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato (con retribuzione eventualmente collegata agli utili dell’impresa) o invece ad un rapporto associativo derivante, in particolare, da un negozio di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, è necessario che il giudice di merito – il cui accertamento, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità – compia una approfondita indagine diretta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione in concreto del rapporto, degli elementi caratterizzanti i due contratti (Sez. L, Sentenza n. 655 del 23/01/1999).
In secondo luogo – ha chiarito il Tribunale – non era stata data prova, così come sostenuto dalla resistente, della sussistenza di un potere di selezione e assunzione del personale da parte del ricorrente (invero ritenuto comunque del tutto irrilevante, ben potendo un lavoratore di I livello avere una professionalità e inquadramento tali che gli consentano di selezionare il personale da assumere).
È stato ritenuto invece determinante, al fine di qualificare il rapporto in questione alla stregua di un rapporto di lavoro subordinato, la circostanza riferita dal teste escusso secondo cui il ricorrente effettuasse settimanalmente i versamenti degli incassi, tenesse il registro di prima nota, avesse un obbligo di costante presenza nel negozio e, soprattutto, che mai avesse percepito una quota degli utili.
Il Giudice, ha infatti innanzitutto svolto una breve disamina degli elementi affermati dalla giurisprudenza più recente in presenza dei quali si ammette la costituzione dello schema contrattuale dell’associazione in partecipazione:
- Pattuizione a favore dell’associato di una prestazione correlata agli utili e non ai ricavi
- Mancanza della soggezione del lavoratore ai poteri organizzativi e gerarchici del datore di lavoro
- Non essenzialità della partecipazione alle perdite
Ha poi richiamato e applicato il costante insegnamento della Suprema Corte secondo cui un rapporto di collaborazione per potere essere qualificato quale rapporto di associazione in partecipazione ai sensi dell’art 2549 c.c. deve presentare, prima di tutto, la causa tipica del contratto in questione, ossia la partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa. Nel caso di specie, sostiene il Giudice, il ricorrente mai ha percepito una quota degli utili anche solo in misura inferiore rispetto a quella prevista dal contratto.
È poi emerso che il datore di lavoro non avesse nemmeno redatto il rendiconto finale e conseguentemente non avesse calcolato il conguaglio tra il compenso dovuto e gli acconti percepiti. Conseguentemente non vi è stato alcun coinvolgimento da parte del lavoratore nella gestione economica dell’impresa.
In linea generale, per costante giurisprudenza ormai assolutamente consolidata, gli elementi caratterizzanti il rapporto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e che lo differenziano dal rapporto di lavoro subordinato sono il comune di rischio di impresa (partecipazione agli utili e alle spese) e il diritto al rendiconto finale (per altro è la stessa Legge Fornero prima richiamata ad aver stabilito che in mancanza della consegna del rendiconto previsto dall’art 2552 c.c. il rapporto si considera subordinato a tempo indeterminato).
Così per esempio la Cassazione nella sentenza n. 1692/2015: “la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale”.
Ed anche Cassazione n. 1817/2013: “in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.
In conclusione, quindi, un rapporto in cui è del tutto carente la partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa, non può qualificarsi associazione in partecipazione.
Non è invece essenziale anche la partecipazione alle perdite. La pattuizione in contratto dell’esclusione dalle perdite non fa venir meno il rischio economico e l’aleatorietà del contratto: in mancanza di utili, infatti, l’apporto lavorativo dell’associato è destinato comunque a rimanere senza compenso (Cass. n. 26273/2020).