La ragione discriminatoria può anche non essere “unica e determinante”

Secondo la Corte di cassazione n. 2414/2022 del 27 gennaio 2022, l’esistenza di una ragione giustificativa non esclude per forza di cose il carattere discriminatorio del licenziamento.

Ragion per cui, da questo punto di vista, tra il licenziamento in parola e quello c.d. “ritorsivo” la differenza è sostanziale: “la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva, invece, nel caso del licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo (Cass. n. 28453/2018; Cass. 6575/2016)”.

Preliminarmente all’esame dell’ordinanza in epigrafe è doveroso ricordare che, ad avviso della Suprema Corte, il licenziamento ritorsivo costituisce l’ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona lui legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità ex art. 1345 cod.civ. del   provvedimento espulsivo, quando   la   finalità   ritorsiva   abbia   costituito   il   motivo   esclusivo determinante dell’atto  datoriale  (ex  multis Cass.  3.12.2019,  n.  31527; Cass. 17.1.12019, n. 1195; Cass. 19.11.2018, n. 29764; Cass. 3.12.2015, n. 24648; Cass. 18.3.2011, n. 6282;)

Sicché, allorquando il datore riesca a dimostrare la sussistenza, in toto o in parte, delle ragioni disciplinari o economiche addotte, allora per forza di cose il licenziamento non potrà mai essere mai qualificato come “ritorsivo”.

Ciò è stato chiaramente ribadito di recente dai giudici di legittimità: “Per accordare la tutela prevista per il licenziamento nullo [L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1… [oggi anche d.lgs. 23/2015 art. 2], perché adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito, come una giusta causa (art. 2119 c.c.) o un giustificato motivo (L. n. 604 del 1966, ex art. 3)” (Cass. 23.9.2019, n. 23583; Cass. 4.4.2019, n. 9468).

Fatta questa doverosa premessa, utile per meglio comprendere le profonde differenze tra i due istituti in rilievo, tornando al caso di specie, gli Ermellini hanno cassato con rinvio il decisum della Corte di Appello, dal momento in cui “la sentenza impugnata è incorsa quindi in errore di diritto laddove ha  dimostrato  di  assimilare  sotto  il  profilo  ora  evidenziato ogni ipotesi  in  cui  si  assuma  la  esistenza  del  motivo  illecito  del recesso datoriale, senza quindi distinguere quella in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo e quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento,  in  relazione  al  quale  la  esistenza  di un  motivo  legittimo  alla  base  del  recesso  datoriale  non  esclude  la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso”. Da questo punto di vista, dunque, l’ordinanza non sembra aver innovato i propri precedenti in materia ed appare meritevole di attenzione, a fronte di talune tesi volte a circoscrivere oltremodo il perimetro di estensione della fattispecie del licenziamento discriminatorio.