Responsabilità datoriali e ripartizione degli oneri nella cessione di azienda
Col trasferimento l’alienante conserva la posizione di debitore in solido con l’acquirente per i crediti in precedenza maturati dal lavoratore e ciò qualora l’eventuale intesa dallo stesso intercorsa con quest’ultimo non si collochi nella scia delle procedure liberatorie fissate dall’art. 2112 c.c., secondo comma.
Con sentenza n. 768/2021, pubblicata il 29 ottobre 2021 (APRI), il Tribunale di Genova, in persona del giudice monocratico Dr. Barenghi, accoglieva, con le dovute puntualizzazioni sulle spettanze da riconoscere, la domanda inoltrata dal dipendente di un’azienda, ceduta dal suo titolare ad una s.r.l.. La chiamata in causa, in attuazione del secondo comma dell’art. 2112 c.c., coinvolgeva entrambi i datori di lavoro per la loro condanna in solido, o come meglio ritenuto, a pagargli i compensi maturati.
Orbene, mentre il cessionario formulava richiesta di citare l’alienate allo scopo d’essere manlevato da ogni onere che fosse tenuto a versare al lavoratore in esecuzione della sentenza, l’altro, col puntare su una conciliazione intervenuta col solo ricorrente comparendo loro sponte davanti al giudice dopo rinvio dell’udienza di discussione a seguito dei noti fatti pandemici, affermava di non dovere alcunché essendo stato dal lavoratore medesimo esonerato con detto accordo dalla responsabilità solidale intercorrente con la cessionaria, nello specifico circa il TFR e le competenze di fine rapporto come da punto 2 del verbale di conciliazione 31 luglio 2020, di cui infra, al recupero delle cui ultime due poste lo stesso lavoratore non intendeva abdicare nei confronti della s.r.l. (punto 5 del verbale de quo).
La pretesa liberatoria del cedente era però contestata dalla convenuta (assente – è bene ribadirlo – all’intesa) e respinta dal giudice per due ordini di motivi, di cui il primo, di esclusiva valenza giuridica, cattura maggiormente la nostra attenzione, dovendosi reputare assorbente ai fini degli argomenti che qui rilevano. Esso, infatti, va a toccare il tenore testuale dell’art. 2112 che, nel far salva al secondo comma, ultima parte, la possibilità per il prestatore di liberare il “cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro” e, dunque, anche dalla debenza in solido col cessionario, la condiziona all’attivazione degli itinera previsti dagli artt. 410 e 411 c.p.c., che vi figurano quali esclusivi strumenti capaci di preservare l’autodeterminazione del dipendente.
La norma civilistica, scrive il giudice, è ictu oculi di stretta interpretazione letterale. Tanto emerge dalla concatenazione delle parole e dal chiaro principio che vi è espresso; un’interpretazione che pertanto prevale rispetto ad ogni altro criterio ermeneutico teso ad estenderne la portata oltre i confini validanti delle mentovate norme processuali.
In altre parole, unicamente l’ambito applicativo di cui agli artt. 410 e 411 c.p.c. è idoneo a favorire il contesto garantistico nell’ottica della rinuncia al nesso che altrimenti stringe le due parti (cedente e cessionaria) e ciò si verifica, appunto, o con l’interessamento delle commissioni che operano presso la DPL (ora ITL), o con la trattazione in sede sindacale, ove a beneficio del predetto venga prestata un’effettiva e compiuta assistenza (circa un tal requisito: Cass. Civ., sez. lav., 18 agosto 2017, n. 20201; Cass. Civ., sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24024; Cass. Civ., sez. lav., 22 maggio 2008, n. 13217; Trib. Salerno, sez. lav., 16 aprile 2020, n. 2936, che, tra l’altro, considera non equipollente l’assistenza fornita da un legale; Trib. Milano, sez. lav., 30 ottobre 2019, n. 138; C. App. Catanzaro, sez. lav., 30 gennaio 2019, n. 1957).
Ed invero, soccorre, al riguardo, l’accostamento con l’ultimo comma dell’art. 2113, che – ai fini di una non impugnabile convenzione tra il prestatore, parte più debole, ed il datore di lavoro – ritiene ineludibile requisito che l’intesa sia raggiunta all’interno di una “sede protetta”, sol che, a differenza della disposizione contenuta nell’art. 2112, il detto comma richiama, oltre alle procedure liberatorie quivi menzionate, quelle fissate dagli artt. 185, 412 ter e quater c.p.c., determinandosi in tal modo, tra le norme civilistiche un’intersezione ma pure uno spettro d’azione diversificato: l’uno si rivolge ai rapporti tra datore di lavoro e dipendente, così colorandosi di una portata più a carattere generale; l’altro ha il suo campo d’azione nello specifico caso della cessione d’azienda, che riguarda, non solo i predetti soggetti, ma un terzo, il cessionario dell’azienda.
Ebbene, va chiarito che nella relazione al re (nn. 854 e 855), la quale custodisce la mens legis e rappresenta un commento anticipato del codice, una tale diversità e la sua giustificazione si riscontrano là ove si sottolinea l’esigenza che nella cessione di quell’unità produttiva che è l’azienda non solo il prestatore, ma anche gli altri due soggetti dell’affaire, vengano protetti e che allo stesso modo non si determinino situazioni in grado di “rendere difficili i trasferimenti di azienda”. In tal modo, “si è ritenuto opportuno ammettere la possibilità della liberazione dell’alienante, quando, a tutela degli interessi delle parti, e, in ispecie del prestatore di lavoro, intervengano nell’atto le competenti associazioni professionali” (n. 854, parte finale).
Se ci si domandasse, allora, per quale motivo il 2112 ed il 2113 si caratterizzino de plano per soluzioni differenti (si pensi che al legislatore, nel primo dei due, sarebbe stato sufficiente un richiamo alle procedure dell’art. 2113, o di questo seguire l’impostazione), la risposta la troviamo nell’impronta, mai cancellata, di disposizioni pensate per contesti circostanziali non coincidenti.
Di certo, l’art. 2112 prende in esame la posizione di tutti e tre i soggetti interessati, preoccupandosi soprattutto (si legge nella cit. relazione) della condizione rivestita dal prestatore ed in particolare dei preventivabili escamotage speculativi fra alienante ed acquirente, come, per l’appunto, scaricarsi l’un l’altro le responsabilità verso il personale. Da qui la necessità di porre a carico di entrambi i datori di lavoro, negli spiegati termini, ogni credito maturato dal dipendente, accordandogli ogni supporto personale e logistico che lo aiuti a superare il presunto condizionamento dato dal suo status di dipendenza.
In tale ottica, non si è mancato di osservare che l’obbligazione del cessionario realizza un accollo cumulativo ex lege, che funge da garanzia per il creditore (Cass. Civ., sez. lav., 6 dicembre 2017, n. 29249). Si tratta di una garanzia che – lo si è visto – si riscontra altresì con l’intervento, in fase conciliativa, di un soggetto terzo (le cit. commissioni; i sindacati) e che in relazione all’art. 2113 agisce con le anticipate differenze. E va ribadito che se potessero trovare ingresso, in via di interpretazione estensiva, ulteriori moduli capaci di ritualizzare l’esonero da responsabilità datoriali, non avrebbe senso il richiamo in ambedue le disposizioni civilistiche a precise e distinte procedure, la cui ratio va senza meno cercata a monte nel proposito di riequilibrio della posizione delle parti, nel cui ambito anche quella del cessionario trova la sua collocazione degna di salvaguardia.
Da quanto precede è derivata la declaratoria giudiziale di nullità della clausola liberatoria in favore del cedente, per violazione della disciplina dell’art. 2112.
Resta la ripartizione, da fissare tra i datori di lavoro, dei crediti emersi in causa a favore del ricorrente, tenendo conto della fine del rapporto avvenuta con il licenziamento intimatogli dalla s.r.l. alcuni mesi dopo la cessione. Il presupposto di fondo rimane la solidarietà che lega l’uno all’altro, dovendosi tuttavia stabilire come il principio operi sub specie, alla luce dell’istanza di manleva proposta dall’acquirente e che nel merito ha incontrato l’assenso del giudice.
Questi, nell’accogliere, con alcuni correttivi, le rivendicazioni del dipendente e ritenuta l’inopponibilità al cessionario del noto patto tra il prestatore ed il cedente, afferma di aderire all’indirizzo maggioritario di cui è oggi intrisa la giurisprudenza di legittimità, oltre che dei tribunali e delle corti territoriali.
Il giudice, in particolare, ricorda come in situazioni siffatte cedente e cessionario, presso il quale il rapporto sia proseguito, rimangano solidalmente obbligati per le poste dovute al lavoratore in relazione al periodo precedente al trasferimento, mentre il cessionario è l’unico a dover rispondere delle debenze successive (per comodità del lettore, citiamo: Cass. civ., sez. lav., 11 settembre 2013, n. 20837; Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2012, n. 4736; Cass. civ., sez. lav., 22 settembre 2011, n. 19291; in sede di merito: Trib. Rieti, 27 maggio 2021, n. 145; Trib. Rovigo, 15 marzo 2019, n. 75; Trib. Velletri, 28 febbraio 2019, n. 351; Trib. Napoli, 30 gennaio 2018, n. 676).
A questo punto, il Tribunale, ribadita la responsabilità nei suindicati termini di entrambi i convenuti, condanna il cedente, debitore principale in relazione al primo periodo, a rifondere al cessionario ogni importo che questi in relazione al detto periodo fosse tenuto a versare al prestatore, condannando, quindi, lo stesso cessionario a pagare le somme dal prestatore medesimo in seguito maturate. Il tutto, oltre agli accessori di legge.
È da menzionare come le spese di lite, visto il contrasto giurisprudenziale di cui si è dato conto, siano state compensate tra i due datori di lavoro, per il resto condannati, sempre in solido, al pagamento degli oneri processuali in favore del ricorrente.