È legittima la sospensione del lavoratore sanitario non vaccinato, a condizione che il datore di lavoro dimostri la sua inutilizzabilità aliunde: in difetto permane il diritto alla sola retribuzione
Il Tribunale di Milano, con sentenza dello scorso 15 settembre (APRI), interviene sul tema della sospensione del lavoratore che abbia rifiutato la vaccinazione anti Covid 19.
Nel caso di specie la ricorrente, “ausiliario socio-assistenziale” all’interno di una RSA, era stata unilateralmente collocata in aspettativa non retribuita dopo aver rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione.
Il provvedimento, sosteneva il datore di lavoro, si era reso necessario alla luce dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., e quindi di tutelare gli altri lavoratori e gli ospiti della struttura dal rischio derivante dalla diffusione pandemica del virus.
Al riguardo la sentenza afferma, in linea di principio, la legittimità di un provvedimento di sospensione, ritenendo che la presenza in servizio di un lavoratore non vaccinato possa risultare in effetti incompatibile con l’obbligo di garantire salubrità e sicurezza del luogo di lavoro, riconducendo quindi tale condizione alla fattispecie della temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi degli artt.1463 e 1464 c.c..
Soggiunge, tuttavia, che la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione deve essere considerata quale extrema ratio, sicché il datore di lavoro – operando il necessario contemperamento tra condizione occupazionale e retributiva e tutela della salubrità degli altri lavoratori – deve preventivamente verificare la non ricollocabilità del lavoratore e quindi la sua non utilizzabilità aliunde.
E solo all’esito di tale verifica, di cui peraltro deve dare conto in giudizio, può procedere alla sospensione del rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze anche sul piano retributivo.
Così, nel caso oggetto di giudizio, dando applicazione a tale principio, la sentenza rileva come il datore di lavoro non abbia in alcun modo ottemperato a quello che qualifica come un vero e proprio obbligo di repechage, con conseguente illegittimità del provvedimento aziendale.
Il Tribunale, inoltre, procede al vaglio del provvedimento impugnato anche alla luce della disciplina sopravvenuta, contenuta nel D.L. n. 44/2021 convertito con modificazioni nella Legge n. 76/2021, che ha introdotto l’obbligo di vaccinazione per gli esercenti professioni sanitarie che lavorino in strutture sanitarie, sociosanitarie e socio assistenziali, pubbliche e private.
E ne conferma, all’esito, l’illegittimità per violazione del dettagliato procedimento di cui all’art.4 e ss. della suddetta legge (che parte dalla segnalazione del datore di lavoro alla Regione o alla Provincia Autonoma interessata, passando per la verifica da parte della competente “Agenzia per la Tutela della Salute” con relativo invito a vaccinarsi o, in difetto, a produrre documentazione medica ai fini dell’esenzione) all’esito del quale, in mancanza di regolarizzazione vaccinale, il datore di lavoro può disporre la sospensione del rapporto senza emolumenti, non prima però di aver verificato l’impossibilità di adibire il lavoratore a differenti mansioni, anche inferiori.
A tale accertamento, tuttavia, il Tribunale fa seguire il solo diritto alle retribuzioni maturate e non anche quello alla riammissione in servizio, non avendo la ricorrente “alla data della decisione, ancora aderito alla campagna vaccinale” in applicazione dell’art. 4 comma 1 del citato provvedimento, secondo cui “la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”.