Sulla validità del “null’altro a pretendere” inserito nelle conciliazioni

Nella prassi, quando si raggiunge una conciliazione su un diritto controverso, è frequente che la stessa sia corredata da formule onnicomprensive, che servono ad attribuire alla conciliazione stessa il carattere di “transazione generale” e, quindi, di “null’altro a pretendere” con riguardo a qualsiasi altro diritto, azionato oppure no, di cui possono essere titolari le parti che l’hanno sottoscritta.

Sia chiaro: le transazioni generali sono ammesse dall’ordinamento italiano, se l’intenzione delle parti stipulanti è quella di porre fine a una pluralità di controversie, anche senza la previa e puntuale individuazione delle medesime; diversamente, ossia se l’intenzione delle parti stipulanti è quella di porre fine solo a un determinato affare, la transazione sarà “speciale” e l’affare in questione andrà necessariamente e specificamente individuato dalle parti medesime.

Al contrario, ciò su cui si dubita è l’impiego di formule generiche all’interno di una conciliazione raggiunta, originariamente, per chiudere una data controversia e che, successivamente, è stata utilizzata come pretesto per ritenere chiusa ogni altra controversia tra le parti.

A tal proposito, la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 21557/2021) è stata chiamata a pronunciarsi sulla seguente formula generica, inserita all’interno di una conciliazione: “le parti dichiarano di aver così completamente transatta la controversia, di rinunciare a qualunque diritto derivante dall’intercorso rapporto di appalto, di rinunciare alle azioni e agli atti giudiziari promossi, di accettare le reciproche rinunzie”. Chiaro è l’intento di una parte, che ha sottoscritto tale conciliazione, di strumentalizzare tale formula per ritenere transatta ogni e qualsiasi partita, così come è chiaro l’intento dell’altra parte stipulante di resistere a tale strumentalizzazione.

Per i Giudici di legittimità, invece, è chiaro che “ove rispetto a un medesimo rapporto siano sorte o possano sorgere tra le parti più liti in relazione a plurime questioni controverse, l’avere dichiarato, nello stipulare una transazione, di non aver più nulla a pretendere in dipendenza del rapporto non implica necessariamente che la transazione investa tutte le controversie potenziali o attuali, dal momento che a norma dell’art. 1364 cod. civ. le espressioni usate nel contratto, finanche ove generali, riguardano soltanto gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di statuire”. Ne deriva, pertanto, che “se il negozio transattivo concerne soltanto alcune delle eventuali controversie, esso non si estende, malgrado l’eventuale ampiezza dell’espressione adoperata, a quelle rimaste estranee all’accordo”.

Ad onor del vero, l’impiego di formule generiche era già stato sanzionato, soprattutto in ambito giuslavoristico, dalla stessa Suprema Corte con la nullità della porzione di conciliazione in cui si fa rientrare, appunto genericamente, tutta una serie di diritti transatti e rinunziati da una parte in favore dell’altra. Il motivo di questa nullità è da ricercarsi nel fatto che le formule generiche rendono indeterminabile l’oggetto stesso della conciliazione, “tale, dunque, da non consentire al lavoratore di esprimere una volontà che presupponesse una rappresentazione esatta dei medesimi” (così, Cass. Civ., Sez. Lav., ordinanza n. 20518/2019).

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, diventa pertanto essenziale concentrare l’attenzione, in sede di scrittura del testo conciliativo, sulle controversie che si intendono espressamente chiudere, evitando così fraintendimenti che solo un Giudice potrà risolvere, indagando sulla effettiva intenzione delle parti (v. art. 1362, comma 1, Cod. Civ.), nonché su tutti gli elementi di contesto e i comportamenti tenuti dalle parti medesime che hanno accompagnato e/o connotato la stipula della conciliazione (v. art. 1362, comma 2, Cod. Civ.).

Con esiti tutt’altro che certi.

A cura di Marasco Law Firm