Cessazione dell’attività dell’impresa quale eccezione al blocco dei licenziamenti
Il datore di lavoro che intende licenziare un dipendente durante il periodo del c.d. blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, adducendo quale motivazione la cessazione dell’attività aziendale, ha l’onere di provare che l’inattività dell’impresa sia permanente, con conseguente messa in stato di liquidazione della Società, mentre a nulla rileva l’eventuale cessazione dell’appalto e la conseguente – momentanea – inattività aziendale.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2362 del 12 marzo 2021 (APRI), si è pronunciato in merito ad un ricorso presentato da un dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo durante il periodo in cui vigeva, e vige, il divieto di licenziamenti economici.
Introdotto dal D.L. n. 18/20 (c.d. “Decreto Cura Italia”) e confermato dai successivi provvedimenti, il divieto di adottare licenziamenti aventi ad oggetto motivazioni oggettive, legate, in senso lato, all’organizzazione aziendale, è un divieto a carattere imperativo, posto che la sua previsione risponde ad un interesse pubblico finalizzato a tutelare la stabilità occupazionale del nostro paese. Ne discende che la sua violazione determina la nullità del licenziamento con le conseguenze di cui all’art. 18 Statuto dei Lavoratori o all’art. 2 D.lgs. n. 23/2015, ossia la reintegrazione del lavoratore con conseguente diritto al risarcimento del danno.
Il D.L. n. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto) ha introdotto, rispetto ai provvedimenti precedenti, delle casistiche che legittimano il datore di lavoro ad intimare, in deroga al divieto “generale”, un licenziamento anche per giustificato motivo oggettivo, e ciò a prescindere dalla fruizione integrale degli ammortizzatori sociali.
Tra le previsioni derogatorie previste dalla normativa ricorre l’ipotesi di cessazione dell’attività di impresa. Questa risponde al principio di libertà imprenditoriale di cui all’art. 41 della Costituzione, che si esplica anche con la libertà, per l’imprenditore, di cessare la propria attività.
Principio cardine, questo, che legittima, ad esempio, anche il licenziamento della lavoratrice madre o irrogato per causa di matrimonio, che in caso contrario sarebbero affetti da nullità.
L’ipotesi derogatoria della cessazione dell’attività è prevista in modo – quasi – analogo in tutte le previsioni normative che si sono succedute nel tempo, dal Decreto Agosto (co. 3 art. 14, D.L. n. 104/20), al Decreto Ristori (co. 11 art. 12 D.L. n. 137/20), alla Legge di Bilancio 2021 (co. 311 art. 1, L. n. 178/20), che hanno concesso al datore di lavoro la possibilità di recedere dal contatto individuale di lavoro nella ipotesi di “cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività”.
In applicazione di questo disposto normativo il Giudice del Lavoro, nella sentenza che si commenta, ha escluso la legittimità del licenziamento individuale intimato in assenza della procedura di liquidazione e conseguente estinzione della Società.
In ossequio al generale principio di cui all’art. 5 D.lgs. n. 604/66, grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’esistenza di un giustificato motivo dell’atto di recesso. Nel caso di specie (in applicazione dello scenario normativo allora vigente) la semplice cessazione del contratto di appalto non è sufficiente a legittimare un licenziamento economico ma è necessario, come espressamente previsto dall’art. 14 co.3 D.L. n. 104/20, la prova della messa in liquidazione della Società.
Invero, se l’ipotesi fattuale si fosse oggi verificata, avrebbe probabilmente concesso una maggiore “elasticità” alla interpretazione della locuzione “cessione dell’attività aziendale”, posto che il recente Decreto Sostegni, oltre a prevedere quanto già indicato dai precedenti decreti, ha ulteriormente previsto che tra le ipotesi derogatorie al blocco dei licenziamenti ricorra la più ampia ipotesi di “cessazione definitiva dell’attività di impresa” (co 11 art. 8 D.L. n. 41/21).
La norma prevede infatti che le preclusioni e sospensioni “non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitività dell’attività dell’impresa oppure dalla cessazione definitiva dell’attività di impresa conseguente alla messa in liquidazione della società”.
Da ciò ne discende che anche in pendenza della fase di liquidazione il datore di lavoro ben potrebbe recedere dal contratto individuale, ma, anche in questo caso, grava sullo stesso l’onere di dimostrare che l’attività lavorativa sia cessata in modo definitivo. Da una lettura orientata anche rispetto alla ratio normativa è pacificamente possibile affermare che la mera interruzione dell’attività lavorativa è di per sé insufficiente a legittimare un licenziamento.
Mancando, nel nostro ordinamento, una definizione di cessazione definitiva dell’attività imprenditoriale, la stessa è da rinvenire caso per caso, così, ad esempio, la cessazione dell’attività sussiste anche nell’ipotesi in cui alcuni dei dipendenti siano stati mantenuti in servizio, se ciò è finalizzato al compimento di pratiche attinenti alla cessazione (Cass. civ. sent. n. 9820/21), mentre la chiusura della sola sede operativa cui è addetto il lavoratore licenziato non può configurarsi quale ipotesi cessazione dell’attività aziendale, con conseguente nullità del provvedimento intimato (Trib. Mantova sent. n. 112/20).
Ciò che rileva, ad ogni modo, è di ammettere una interpretazione orientata alla volontà legislativa di escludere tutte le ipotesi fattuali che legittimerebbero il datore di lavoro a proseguire anche solo momentaneamente, ma in una astratta previsione duratura nel tempo, l’attività dell’impresa.