Falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico: reintegra se la platealità della condotta è tale da non ingannare l’ente
E’ quanto deciso dalla Suprema Corte, sentenza n. 14199 del 24 maggio 2021 (APRI), la quale ha concluso per l’illegittimità di un licenziamento per giusta causa di un impiegato comunale a cui era stato contestato che “in modo reiterato attestava falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”.
Inoltre, nelle stesse occasioni dell’assenza ingiustificata (comunque durate pochi minuti), il lavoratore veniva visto all’esterno della propria sede di lavoro, con indosso vistosi cartelli di cartone, recanti impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, ritenute ingiuste e lesive della salute propria e dei colleghi.
Nel suo iter logico-argomentativo, la Corte muove tuttavia dal presupposto, frutto dei suoi precedenti arrêts, che per integrare gli estremi del licenziamento disciplinare ex art. 55 quater, lett. a), D.Lgs. n. 165 del 2001, occorre che “la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).
Sennonché, nonostante la citata disposizione normativa, “l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia)”.
Sicché, i Giudici di legittimità, nel confermare il precedente grado di giudizio, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi:
– si è anzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata;
– inoltre, si è ritenuto che i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, siano tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.
In altri termini, per integrare la fattispecie di cui all’art. 55 quater, lett. a), del D.Lgs. n. 165 del 2001, l’illecito disciplinare contestato richiede necessariamente una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio: contrariamente a ciò che è avvenuto nella fattispecie, ove l’impiegato aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria.
Ragion per cui, anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, “il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati”.
Ebbene, conseguentemente la Suprema Corte ha dovuto concludere per la tutela reintegratoria, non potendosi giustificare l’applicazione della sanzione estintiva dal momento in cui il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio (rectius: la platealità della condotta) e, comunque sia, le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti.