Anche il naufragio della “Costa Concordia” non scusa lo “shopping compulsivo” con i soldi di Ateneo
È quanto deciso dalla Suprema Corte, sentenza n. 12641 del 12 maggio 2021 (APRI), la quale ha concluso per la piena legittimità di un licenziamento per giusta causa di un lavoratore a cui era stato contestato di avere effettuato acquisti di merce spendendo il nome dell’Università -di cui era dipendente da oltre 20 anni- e addebitandone a quest’ultima il costo.
Il funzionario si era difeso sostenendo che le condotte (l’acquisto di sette televisori, quattro notebook, un congelatore, un frigorifero ed altro…) erano state tenute in quanto all’epoca egli si trovava in uno stato psicologico di grave turbamento, tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere, determinato dall’essere stato coinvolto nel tragico naufragio della nave Costa Concordia, a bordo della quale viaggiava.
Inoltre, sempre secondo il lavoratore, solo la malattia avrebbe potuto spiegare “il comportamento di un funzionario che, dopo aver prestato per oltre venti anni il servizio senza mai incorrere in alcun rilievo, acquista un numero considerevole di elettrodomestici per poi regalarli o accatastarli nel garage”.
Nonostante ciò “lo shopping compulsivo” con i fondi dell’Ateneo dell’ex dipendente, per la Cassazione, adesiva rispetto ai precedenti due gradi di giudizio, è una condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Sicché, l’assenza di precedenti disciplinari e il risarcimento del danno economico prestato a favore dell’Università da parte dell’ex dipendente non sono comunque bastati a dimostrare la sproporzionalità della massima sanzione comminata.
In particolare, sulla decisione dei Giudici di legittimità ha influito nettamente la consulenza tecnica d’ufficio disposta in grado di appello, la quale aveva escluso che il ricorrente “versasse in una condizione di privazione delle facoltà intellettive e volitive e che queste ultime fossero così diminuite da far venire meno la sua capacità di autodeterminazione e la consapevolezza in ordine all’atto che stava per compiere” oltre ad accertare che, al contrario, lo stesso possedeva l’idoneità sia a comprendere il disvalore sociale dell’azione, sia a determinarsi consapevolmente nella scelta fra il compiere l’atto o l’astenersi dall’azione.
In altri termini, l’aver vissuto in prima persona i tragici fatti occorsi la notte del 13 gennaio 2012 nei pressi dell’Isola del Giglio –secondo la perizia tecnica- non ha fatto venir meno la consapevolezza del funzionario in merito al disvalore della condotta posta in essere con i fondi del proprio datore di lavoro.
È stato, quindi, affermato che il giudice del merito, prima ancora di indagare sul grado della colpa o sull’intensità dell’elemento intenzionale, deve accertare se il lavoratore abbia tenuto quel comportamento con coscienza e volontà (Cass. n. 13883/2004 e Cass. n. 2720/2012), qualora risultino allegate circostanze di fatto che mettano in discussione la riferibilità soggettiva della condotta all’agente.
In ultima analisi, nonostante si comprenda bene la sofferenza psicologica patita dal ricorrente, l’arresto giurisprudenziale si pone nel solco tracciato dalla costante giurisprudenza, secondo cui, nell’interpretare la giusta causa di licenziamento, si è ripetutamente evidenziato che la stessa ricorre allorquando, la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia che il datore di lavoro necessariamente deve riporre nella correttezza dell’adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono (Cfr. ex plurimis Cass. n. 12798/2018; Cass. n. 8816/2017; Cass. n. 18715/2016).