Rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione e contagio da COVID-19: la tutela infortunistica

Con PEC del 17.02.2021, l’Ospedale Policlinico San Martino di Genova formulava un quesito all’Inail in merito ai provvedimenti da adottare in caso di contagio sul luogo di lavoro del personale infermieristico che non abbia aderito al piano vaccinale anti-COVID-19.

In particolare, per quel che rileva in questa sede, l’Ospedale chiedeva se in caso di contagio da COVID-19 causata dall’azione virulenta del Sars-CoV-2, a fronte della scelta compiuta dal lavoratore di non aderire al piano vaccinale, l’Inail riconoscesse comunque la sussistenza di un infortunio sul lavoro, ammettendo i lavoratori contagiati alla relativa tutela assicurativa prevista dal D.P.R. n. 1124/1965.

L’Istituto rispondeva con la nota n. 2402 del 01.03.2021

Prima di affrontare nel merito tale questione, pare opportuno ricordare brevemente quali sono i presupposti per il riconoscimento del contagio da COVID-19 come infortunio sul lavoro.

Ai sensi dell’art. 42, comma 2, D.L. n. 18/2020, conv. in L. n. 27/2020, «nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro» l’Inail «assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato» e le relative prestazioni «sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro».

La disposizione non ha carattere innovativo, limitandosi a riaffermare quanto già si poteva desumere in via interpretativa dall’art. 2, D.P.R. n. 1124/1965. Con orientamento costante, infatti, la giurisprudenza suole equiparare l’azione virulenta degli agenti biologici alla causa violenta richiesta per il riconoscimento come infortunio sul lavoro di quegli eventi lesivi occorsi in occasione di lavoro (Cass. 3 novembre 1982, n. 5764. Cfr. anche Cass. 12 maggio 2005, n. 9968; Cass. 28 ottobre 2004, n. 20941; Cass. 21 dicembre 2001, n. 16138; Cass. 27 giugno 1998, n. 6390; Cass. 13 marzo 1992, n. 3090; Cass. 19 luglio 1991, n. 8058, in Riv. inf. mal. prof., 1991, II, p. 189). Quanto all’occasione di lavoro, l’evoluzione giurisprudenziale, sulla scorta delle intuizioni dottrinali (fra tutti cfr. De Matteis, L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, Torino, 1996, 106), ha portato a estendere la nozione legislativa a «tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine, alle persone, al comportamento dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della prestazione» (fra le più recenti Cass. (ord.) 19 marzo 2019, n. 7649; Cass. (ord.) 22 maggio 2018, n. 12549; Cass. 20 luglio 2017, n. 17917).

È chiaro che in ragione del carattere ubiquitario del virus, l’accertamento del requisito dell’occasione di lavoro, ai fini del riconoscimento del carattere professionale dell’evento, necessita di alcune precisazioni. L’Inail, con circolare n. 13 del 03 aprile 2020, ha, a tal proposito, distinto gli operatori sanitari e le altre categorie di lavoratori che svolgono mansioni a stretto contatto con il pubblico o con l’utenza, ai quali è riconosciuta la presunzione semplice di origine professionale. Per le restanti categorie di lavoratori, in cui l’individuazione delle circostanze del contagio risulta maggiormente problematica, «l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale». Non è questa la sede per confutare l’impostazione seguita dall’Istituto assicuratore, ma non si può certamente non rilevare che tale circolare interpretativa sembra ispirata più alle vecchie logiche del principio del rischio professionale, che non alla garanzia della liberazione dal bisogno.

L’unico limite all’estensione dell’occasione di lavoro è dato dalla sussistenza del rischio elettivo, concetto di elaborazione giurisprudenziale in grado di recidere il legame tra rischio e attività lavorativa che insieme al dolo costituisce l’area di non indennizzabilità dell’evento.

Storicamente, infatti, la tutela assicurativa si estende anche alle condotte colpose, perfino gravi, del lavoratore, con la conseguenza che risultano indennizzati anche gli eventi derivanti dall’inosservanza di norme antinfortunistiche.

La Corte di Cassazione ha di recente sottolineato che «la colpa dell’assicurato costituisce una delle possibili componenti causali del verificarsi dell’evento», in quanto è la stessa garanzia della libertà dal bisogno, desumibile dagli artt. 32 e 38 Cost., a esigere che il lavoratore sia tutelato per ogni infortunio sul lavoro, ivi compresi quelli occorsi per colpa del lavoratore (Cass., 20 luglio 2017, n. 17917, cit.).

Come considerare allora il rifiuto del lavoratore di aderire al piano vaccinale sul piano delle tutele assicurative?

La dottrina oramai è concorde nel ritenere che ad oggi non esiste un obbligo di imporre la vaccinazione ai dipendenti, stante la mancanza di un apposito provvedimento normativo idoneo a soddisfare la riserva di legge prevista dall’art. 32 Cost. Né è possibile supplire a tale mancanza tramite il richiamo in via interpretativa all’art. 2087 c.c. o al D.Lgs. n. 81/2008. Allo stato dell’arte, secondo l’interpretazione più convincente, accolta peraltro dall’Inail nella nota operativa che si commenta, il rifiuto di vaccinarsi si configura come libero esercizio di un proprio diritto negativo o, detto altrimenti, come «esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario» (cfr. la Nota operativa Inail del 1° marzo).

Tale interpretazione porta ad escludere che il rifiuto di vaccinarsi possa configurare il dolo del lavoratore ai sensi dell’art. 65 del D.P.R. n. 1124/1965, tanto più che secondo la giurisprudenza e la dottrina ai fini assicurativi viene in rilievo il dolo specifico, che si esplica nell’ipotesi di «autolesionismo del lavoratore che vuole lucrare nel conseguimento della rendita da infortunio» (cfr. Cass., 19 aprile 2003, n. 6377; De Matteis, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2020, 126).

Allo stesso tempo, una tale condotta non sarebbe riconducibile nemmeno, come sottolineato dall’Istituto assicuratore nella nota in commento, nell’ambito del rischio elettivo. A dispetto della radice etimologica del termine, un’interpretazione che riducesse il rischio elettivo soltanto a quel rischio semplicemente scelto dal lavoratore sarebbe fuorviante (cfr. Cass. 20 luglio 2017, n. 17917, cit.). Ciò che si può dire è che il rischio elettivo sia scelto solo «nel senso di rischio estraneo al lavoro protetto» (cfr. G. Corsalini, Estensione della tutela Inail – Questioni controverse, in Resp. civ. prev., 2016, n. 4, 1402).

L’Inail espone diffusamente nella nota in commento i criteri che integrano il rischio elettivo, ponendosi nel solco della più recente giurisprudenza: «vi deve essere non solo un atto volontario […], ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) diretto a soddisfare impulsi meramente personali […], c) che affronti un rischio diverso da quello lavorativo al quale l’atto stesso sarebbe assoggettato, per cui l’evento non ha alcun nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa» (in dottrina cfr. anche Giubboni, Ludovico, Rossi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2020, 160-161).

La condotta del lavoratore, nel caso di specie operatore sanitario, che esercita il proprio diritto negativo a non vaccinarsi e che comunque per ragioni contingenti si trova a dover prestare la propria attività lavorativa, contraendo il virus nello svolgimento delle sue mansioni, non può ritenersi arbitraria ed estranea alle finalità produttive. Il contagio, infatti, si verifica nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa e il lavoratore si espone a un rischio proprio del lavoro, il che esclude la sussistenza del rischio elettivo.

Il rifiuto di aderire al piano vaccinale, qualora si ricostruisca la vaccinazione come misura di prevenzione contro il rischio biologico presente sul luogo di lavoro, come sembra emergere dalla nota Inail in commento e dalle prime ricostruzioni dottrinali, potrà al più configurarsi quale comportamento colposo, come tale ricompreso nell’ambito della tutela assicurativa. L’indennizzabilità di un evento di tal fatta, però, non esclude che la colpa possa comunque assumere rilievo «nei rapporti fra l’infortunato e il datore di lavoro o i suoi dipendenti, nonché rilevanza indiretta sulla misura della rivalsa dell’INAIL in sede di regresso», che può essere esclusa o ridotta a seconda del grado di efficienza causale della colpa (cfr. da ultimo Cass. (ord.) 19 marzo 2019, n. 7649, cit.).

L’interpretazione dell’Istituto assicuratore, in definitiva, appare corretta e in linea con i consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia di tutele assicurative.