Il dibattito dottrinale sull’obbligatorietà della vaccinazione anti Covid-19: i favorevoli e i contrari

1. Premessa

La pandemia causata dalla diffusione del Covid-19 ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una sfida senza precedenti per l’ordinamento vigente. Ormai da un anno stiamo affrontando una pandemia che sta logorando il tessuto economico e sociale causando la morte di decine di migliaia di persone. Tuttavia, recentemente, si è assistito all’arrivo di diversi vaccini (sino ad ora Pfizer, Moderna e AstraZeneca) in grado di contrastare il Sars-CoV-2, la cui somministrazione è cominciata da operatori sanitari ed anziani ospiti delle RSA.

Il Governo, in conformità al comune sentire tipicamente europeo, sfociato nella Risoluzione dell’assemblea del Parlamento n. 2361 del 27 gennaio 2021, ha scelto la strada del “raccomandare di vaccinarsi” piuttosto che “l’obbligo di vaccinarsi”. A tal proposito, autorevoli giuristi, e non solo, si sono divisi tra favorevoli e contrari. Si osserva, infatti, che soltanto una vaccinazione di massa potrà, verosimilmente, consentire di raggiungere la c.d. “immunità di gregge” e quindi porre fine alla pandemia.

Nell’ambito del rapporto di lavoro il problema è particolarmente urgente. Infatti, si sono già verificati casi di personale sanitario che ha rifiutato il vaccino, e per la stessa evenienza in Paesi a noi vicini, come la Germania, che pure ha optato per la facoltatività, sono stati già comminati i primi licenziamenti.

2. La disciplina emergenziale di riferimento: l’art. 2087 e l’integrazione con i Protocolli condivisi.

Per comprendere l’effettiva portata della questione è necessario affrontare, seppur in estrema sintesi, l’impostazione di fondo della normativa emergenziale Covid-19 in materia di tutela della salute nei luoghi di lavoro. Ciò non tanto per ragionare in profondità sulla peculiarità di un sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato per la prima volta sul rinvio ad atti di autonomia negoziale collettiva(1), oppure sulla natura pubblicistica(2) o attraverso la stipula di protocolli condivisi(3) , quanto, piuttosto, per evidenziare le diverse tipologie di misure di sicurezza che si possono ricavare da queste fonti (e, anche, dalle ulteriori disposizioni riconducibili alla normativa emergenziale(4) se pur non specificatamente rivolte al mondo del lavoro(5)).

Il legislatore ha dettato prescrizioni obbligatorie al fine di contrastare e prevenire la diffusione del virus. Tra queste, particolare importanza assumono i diritti e le responsabilità connesse a soggetti specifici, come i datori di lavoro e i lavoratori. Con riferimento a tali soggetti, tra le questioni più dibattute, si individuano quelle sull’origine professionale del contagio e sulla responsabilità per la prevenzione. Riveste quindi una particolare rilevanza il problema della corresponsione dell’indennizzo o risarcimento dell’infortunio, in ragione del carattere pandemico dell’infezione, stante la difficoltà di individuare l’origine interna o esterna, rispetto alla causa lavorativa, della infezione stessa(6). Dato l’alto livello di rischio, le misure di prevenzione catalogate dal testo unico della sicurezza D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 sono state integrate da ulteriori misure suggerite dalla esperienza e dalla scienza, ai sensi dell’art. 2087 c.c., cristallizzate nei protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e messa in sicurezza dell’attività produttiva(7), resi obbligatori con i DPCM del 10 e 26 aprile 2020, a carico sia dei datori di lavoro che dei lavoratori. Il legislatore ha poi disposto, al fine di definire e circoscrivere la responsabilità del datore, su impulso delle parti interessate, che l’osservanza di tali protocolli integri l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 2087 ai fini della responsabilità civile e penale del datore di lavoro(8). Tra le misure obbligatorie indicate in tali testi non è, tuttavia, compreso il vaccino anti-Covid.

Occorre poi ricordare che la qualificazione del contagio da Coronavirus quale “rischio generico”(9), in quanto incombente indistintamente su tutta la popolazione unitamente all’individuazione di precise prescrizioni precauzionali, induce a ritenere che l’adozione e la corretta applicazione delle misure previste nei protocolli e nelle specifiche discipline di settore escluda la responsabilità datoriale, penale, contrattuale ed extracontrattuale.

La soluzione trova conferma nell’articolo 29-bis (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19) del “Decreto liquidità” (n. 23/2020), articolo inserito in sede di conversione (L. n. 40/2020) che, fornendo un importante chiarimento rispetto a quanto stabilito dall’articolo 42 del Decreto “Cura Italia” (n. 18/2020) dispone espressamente che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro (pubblici e privati) adempiono all’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (articolo 2087 c.c.), mediante l’adozione ed il mantenimento delle misure previste dal Protocollo di contrasto al Covid- 19 negli ambienti di lavoro (sottoscritto il 24 aprile 2020 tra Governo e Parti sociali), e dai protocolli della Regione o dai protocolli e/o accordi di settore, stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora siano più attinenti alle attività economiche e produttive di settore.

Il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle linee guida, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determinerà la sospensione dell’attività lavorativa fino al ripristino delle condizioni di sicurezza(10).

3. La questione della vaccinazione obbligatoria e del conseguente licenziamento: le differenti interpretazioni.

Ormai due mesi fa, con l’arrivo del vaccino Pfizer, l’attenzione dei media si è spostata verso le strategie messe in campo dal governo al fine di dar avvio ad una campagna vaccinale senza precedenti.

In tale contesto, anche i giuslavoristi hanno preso in esame due questioni di rilievo: se sia obbligatoria o meno la vaccinazione in ambiente di lavoro e se, qualora il lavoratore rifiuti di vaccinarsi, il datore di lavoro possa procedere con la risoluzione del rapporto.

Diverse sono state le voci che si sono levate a favore e contro l’obbligo di vaccinazione. Le principali tesi avanzate vengono di seguito esposte.

Da un lato, vi è chi ha sostenuto la legittimità del licenziamento del lavoratore in caso di mancata vaccinazione, fondando la propria tesi sulla base del principio previsto dall’ art. 279 del Testo unico della Sicurezza sul Lavoro  (D.Lgs. n. 81/2008), che impone al datore di lavoro di mettere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente. Tale disposizione fa riferimento al rischio biologico che nasce nell’ambiente di lavoro: si tratta di una fattispecie diversa da quella derivante dall’epidemia da Covid-19, che ha origine e diffusione di carattere generale (e, come tale, va considerata un rischio generico)(11).

Occorre leggere tale previsione in combinazione all’art. 42 dello stesso Testo Unico, che impone al datore di lavoro l’allontanamento temporaneo del lavoratore in caso di inidoneità alla mansione su indicazione del medico competente, ma solo ove possibile. Da una lettura combinata delle due disposizioni discende che, il datore di lavoro avrebbe due opzioni per gestire il lavoratore che ha rifiutato di sottoporsi al vaccino: ricollocarlo presso altra mansione, se possibile, oppure licenziarlo, quando la ricollocazione del lavoratore non fosse compatibile con l’assetto organizzativo stabilito dall’azienda(12).

Non molto tempo dopo, vi è chi ha sostenuto che, nonostante l’art. 32 della Costituzione riconosca alla sola legge la prerogativa di imporre trattamenti sanitari quale sarebbe la vaccinazione obbligatoria, il datore di lavoro in quanto a capo dell’impresa è comunque tenuto all’obbligo di garanzia stabilito dall’articolo 2087 del Codice Civile(13). Si è detto che tale norma sia una norma “aperta” o “di chiusura” della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, avendo la funzione di colmare le lacune della legislazione prevenzionistica che non può prevedere ogni fattore di rischio: ai sensi dell’articolo 2087 c.c., il datore di lavoro deve provvedere a garantire la sicurezza dei lavoratori attuando gli interventi più adeguati al progresso scientifico e tecnologico e anche all’esperienza ed ai criteri generali di prudenza e diligenza. Data la situazione in essere, il vaccino rappresenta l’unico strumento in grado, in base alla scienza, di tutelare maggiormente dall’infezione Covid-19 sui luoghi di lavoro, per cui i datori di lavoro sarebbero tenuti, in base a questo ragionamento, a richiedere la vaccinazione ai propri subordinati e ad estromettere dal contesto lavorativo (tramite licenziamento o sospensione per inidoneità) coloro tra questi che si rifiutassero senza un comprovato impedimento personale di natura medico-sanitaria. Ai lavoratori, infine, sarebbe preclusa l’obiezione alla vaccinazione basata sulla preoccupazione per possibili effetti indesiderati, così come non sarebbe loro concesso di sindacare sull’adottabilità o meno di tutti gli altri dispositivi di sicurezza.

Rispetto a questi interventi, non sono mancate tesi opposte di chi, in base all’art.32 della Costituzione, ha dubitato della possibilità, per il datore di lavoro, di licenziare il dipendente per inidoneità alla mansione ove lo stesso rifiuti di vaccinarsi, in quanto non può essere imposto ad alcuno un trattamento sanitario se non per disposizione di legge(14).

Infatti, nonostante la previsione dell’art.2087 imponga al datore di lavoro di porre in essere tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, si ritiene che allo stato attuale non sussistano gli estremi per la sua applicazione, poiché mancherebbero quei dati di acquisita “esperienza e tecnica” che potrebbero imporre al datore di lavoro l’adozione di tale misura. Ne discende, che in alcun modo l’art 2087 c.c. può essere considerato la disposizione di legge in grado di rendere obbligatoria la vaccinazione sul lavoro, dovendo questa consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione.

Tuttavia, occorre sottolineare che, in un ambiente di lavoro quale quello ospedaliero, in cui garantire la massima sicurezza è di fondamentale importanza, il datore di lavoro può valutare la sospensione, qualora quest’ultima sia prevista da contratto, l’adibizione ad altre mansioni per inidoneità del dipendente che abbia rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione.

Sarebbe, forse, più utile, considerata anche la carenza degli organici di cui soffre la sanità italiana che le parti sociali – i sindacati e le controparti datoriali – stilassero un protocollo comportamentale a garanzia della sicurezza dei lavoratori e di chi accede ai luoghi di lavoro(15).

Secondo un’altra autorevole opinione, non sembra in alcun modo possibile il richiamo all’art. 2087 c.c. in funzione di giustificazione di un obbligo di vaccinazione che il datore di lavoro deve rispettare; ciò in quanto il legislatore ha previsto che, al fine di prevenire il rischio del contagio, il datore di lavoro pubblico e privato deve conformarsi alle obbligazioni previste dalla norma codicistica mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione sottoscritto dalle parti sociali il 24 aprile 2020 (e successive modificazioni e integrazioni)(16). Il protocollo, tutt’ora in vigore, nulla prevede in merito all’impiego del vaccino come misura di protezione individuale e di prevenzione del contagio. Ne discende che, se da un lato il datore non potrà, in adempimento dell’art. 2087 c.c. imporre al lavoratore di sottoporsi a vaccinazione, poiché non solo vi sarebbe contrasto con l’art. 32 Cost, ma in quanto tale imposizione non è prevista tra le misure attualmente in vigore per la prevenzione del rischio di contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro, dall’altro il datore di lavoro non potrà ritenersi responsabile per il contagio eventualmente avvenuto sul luogo di lavoro e causato da un lavoratore non vaccinato, o che si è rifiutato di vaccinarsi, se egli ha correttamente adempiuto alle prescrizioni previste dal Protocollo condiviso(17).

Secondo altra autorevole dottrina, il datore di lavoro, nel caso di rifiuto del dipendente di vaccinarsi, può trarre da tale scelta tutte le conseguenze che ne discendono sul piano giuridico, così verificando in concreto se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile, così liberandosi dall’obbligo retributivo (art. 1256, comma 2, c.c.), avuto riguardo alla prevenzione del rischio di contagio della compresenza con altri lavoratori, vaccinati e non, ovvero di contatti che eventualmente il lavoratore sia tenuto ad intrattenere con soggetti esterni all’impresa (utenti o clienti della stessa). Secondo tale tesi sarebbe giustificabile un licenziamento per G.M.O. soltanto se l’impossibilità di utilizzo a lungo termine del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva(18).

Altri ancora hanno affermato che quanto sostenuto precedentemente da autorevole dottrina prevede solo la messa a disposizione dei vaccini per i dipendenti (quindi un obbligo per il datore di lavoro), ma non prevede in alcun modo l’obbligatorietà della somministrazione.

Precisa tale dottrina che, del resto, la riserva di legge posta dall’art. 32 Cost. («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»), esige che la legge preveda specificamente il trattamento sanitario obbligatorio in caso di vaccino anti Covid-19. Secondo questa tesi la mancanza di un obbligo esclude di per sé che vi possa essere un licenziamento disciplinare in caso di rifiuto del lavoratore alla somministrazione del vaccino.

Allo stesso modo la valutazione di inidoneità alla mansione del lavoratore che rifiuta il vaccino non potrebbe essere valutata automaticamente, ma solo nel caso in cui il medico competente ritenga che sia misura di sicurezza indispensabile nel contesto aziendale. Se il lavoratore fosse dichiarato inidoneo alla mansione per essersi opposto alla somministrazione del vaccino, comunque ciò non determinerebbe di certo il licenziamento per inidoneità alla mansione (che presuppone una inidoneità permanente), ma al più la sospensione del rapporto di lavoro (con sospensione della retribuzione) per inidoneità temporanea, fino a nuova valutazione del medico competente, che valuti un affievolimento del rischio contagio in azienda(19).

Nella stessa direzione, infine, c’è chi ha sostenuto che gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione, in quanto il datore di lavoro non è messo nelle condizioni di poter adempiere, giacché le risorse e la procedura di vaccinazione sono ancora tutte in mano all’autorità sanitaria pubblica.

D’altra parte, “non è possibile considerare la vaccinazione come un obbligo connaturato all’adempimento del contratto di lavoro, salvo che non si svolgano mansioni specifiche per le quali è richiesto uno specifico standard di sicurezza sanitaria”(20). Sarà quindi controverso ritenere che il dipendente non vaccinato sia per definizione inidoneo allo svolgimento della mansione. Bisognerà valutare caso per caso, tenendo conto dell’attività svolta, senza considerare che, in pendenza del divieto di licenziamento per motivi oggettivi, questa strada sarebbe comunque preclusa.

4. Conclusioni

Si impongono alcune considerazioni finali di carattere generale. La pandemia dovuta alla diffusione del Coronavirus ha, evidentemente, sorpreso il mondo economico e quello del lavoro causando sconvolgimenti nel rapporto tra datore di lavoro e dipendente.

Ad opinione di chi scrive, in mancanza di una legge ad hoc che imponga la somministrazione del vaccino anti Covid-19, è di certo evidente, come non si possa ritenere l’obbligatorietà della stessa nei luoghi di lavoro e fuori da essi. Ciò almeno fino a quando non interverrà il legislatore. Tuttavia, occorre ricordare come già in passato, siano state ritenute legittime previsioni di conseguenze diverse nell’ipotesi di rifiuto di somministrazione di un vaccino obbligatorio. A tal proposito, occorre ricordare il c.d. “decreto vaccini”(21), ove sono state previste dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e quattro vaccinazioni raccomandate; riguardo alle sanzioni in caso di inosservanza dell’obbligo, per i minori in età prescolare (da zero a sei anni) fu prevista l’esclusione da asili nido e scuole dell’infanzia (il rispetto degli obblighi vaccinali è requisito per l’accesso), mentre per i minori in età scolare fino a sedici anni (dalla scuola primaria in poi) fu prevista una sanzione amministrativa di natura pecuniaria fino a un massimo di 500 euro, ma in tal caso il minore poteva comunque avere accesso alla scuola e sostenere gli esami. In questo caso la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 2018 ha ritenuto “la disciplina di legge legittima e non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche.

Ne discende che esistono precedenti nel nostro ordinamento in cui il legislatore è già intervenuto imponendo un obbligo di vaccinazione(22); ma fino a quando ciò non accadrà anche per quel che concerne il SARS-CoV-2, sia per la generalità dei consociati, che per la platea dei lavoratori non sarà possibile ritenere sussistente alcun tipo di obbligo.

In conclusione, mentre secondo quanto sancito dell’art. 279, c. 2 del Testo Unico Sicurezza sul lavoro (TUSL) incombe sul datore, attraverso il medico competente, l’obbligo di mettere a disposizione il vaccino anti Covid-19 per le categorie di lavoratori c.d. vulnerabili o per i lavoratori del comparto sanitario, appare altresì difficile che questo obbligo persista nei confronti della platea generalizzata dei lavoratori, e che il datore di lavoro possa, in maniera arbitraria, licenziare per violazione disciplinare o per inidoneità alla mansione il dipendente che rifiuti siffatto trattamento. Sicuramente bisognerà attendere l’evoluzione legislativa e le future sentenze sul tema per avere maggiori certezze.

Note

1 Art. 1, punti 7 e 9, del DPCM dell’11 marzo 2020. Alla luce di tali previsioni, in data 14 marzo 2020, è stato poi sottoscritto dalle parti sociali il «Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro» (in avanti “Protocollo”), successivamente integrato il 24 aprile 2020 e, nel frattempo, sono state anche perfezionate diverse intese di livello aziendale e/o di gruppo (da ultimo, appare significativa l’intesa sottoscritta dal Gruppo FCA il 9 aprile 2020).Per le attività lavorative svolte nei cantieri, si veda il Protocollo 24 aprile 2020 sottoscritto anche dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nonché dal Ministero del lavoro.

2 Del tutto correttamente è stato già evidenziato da P. PASCUCCI, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme sullo ius superveniens del d.p.c.m. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in Dir. sic. lav., 1, 2020, 123, che il Protocollo costituisce una manifestazione di potestà lato sensu normativa. Come è da dire quando un prodotto dell’autonomia negoziale collettiva — prima tramite una specifica norma di rinvio e, poi, con una previsione normativa che ne impone l’applicazione estendendone l’efficacia soggettiva e/o, ma ai nostri fini è uguale, l’effettività — è assunto dall’ordinamento statuale quale strumento utile per la realizzazione di un interesse di portata generale che eccede quello di cui sono portatori i soggetti stipulanti: la definizione dell’impianto delle misure di sicurezza minime necessarie per la tutela dei lavoratori dal rischio Covid-19.

3 Protocollo 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020.

4 Si pensi a titolo esemplificativo all’art. 1, co. 1, dell’ordinanza firmata in data 4 aprile 2020 dal Presidente della Regione Lombardia: impone l’obbligo di utilizzo della mascherina ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione. Quella ordinanza, infatti, dispone che «ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione, vanno adottate tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca, contestualmente ad una puntuale disinfezione delle mani. In ogni attività sociale esterna deve comunque essere mantenuta la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro». Anche la normativa emergenziale di portata nazionale è, come ovvio, in costante evoluzione (si veda, solo per fare un esempio, il DPCM 10 aprile 2020) ed interviene in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. È altamente plausibile, da questo punto di vista, l’ipotesi di interventi che contengano, direttamente e/o indirettamente, aggiornamenti delle misure di sicurezza sul lavoro. In questo senso si può richiamare, l’Allegato 5 al DPCM 10 aprile 2020 che specifica talune misure di sicurezza applicabili agli esercizi commerciali che, come ovvio, sono, da un diverso punto di vista, anche luoghi di lavoro (qualificati per il fatto di essere aperti al pubblico) introducendo, con riferimento alla pulizia e alla sanificazione dell’ambiente di lavoro, la necessaria «garanzia di pulizia ed igiene ambientale con frequenza di almeno due volte al giorno» e, per quanto invece attiene ai dispositivi di protezione individuale obbligatoria, l’obbligo di utilizzo di guanti “usa e getta” nell’attività di acquisto.

5 M. MARAZZA, L’art. 2087 nella pandemia Covid-19 (e oltre), in Riv. it. dir. lav., 2020, I, 267 ss.

6A. DE MATTEIS, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in Conversazioni sul lavoro a distanza, 2021, 3.

7 Il protocollo è stato confermato anche nel DPCM 3 dicembre 2020, contenente misure urgenti di contenimento del contagio da nuovo coronavirus sull’intero territorio nazionale, fatto salvo quanto contenuto nell’art.1 del Decreto.

8 Art. 29-bis della Legge 5 giugno 2020, n. 40, in sede di conversione del D.L. n. 23/2020.

9 G. PELLACANI, La vaccinazione contro il Coronavirus (SARS-CoV-2) negli ambienti di lavoro tra norme generali in tema di prevenzione e tutela della salute e sicurezza, disciplina emergenziale per la pandemia Covid-19 e prospettive di intervento del legislatore, in Lav. dir. Europa, 1, 2021, 3.

10 D.L. 8 aprile 2020, n. 23, Art. 29-bis “Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid- 19”.

11 G. FALASCA, “Non è così facile licenziare un dipendente che non vuole vaccinarsi. Sosteniamo la scienza senza perdere la certezza del diritto, in https://www.open.online/2021/01/01/non-facile-licenziare-dipendente-che-non-vuole- vaccinarsi-ichino-guariniello/.

12   R.   GUARINIELLO,   “Sul   vaccino   per   i   lavoratori   contro   il   Covid-19   si   applichi   la   legge!, in https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2021/01/16/vaccino-lavoratori- covid-19-applichi-legge.

13 P. ICHINO, Vaccino Covid, l’ipotesi di Ichino: Il datore di lavoro può licenziare se un dipendente si rifiuta di farlo. Lo dice il codice civile, in ilfattoquotidiano.it, dicembre 2020.

14 O. MAZZOTTA, Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, in Lav. dir. Europa, 1, 2021; A. PERULLI, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in http://www.rivistalabor.it/dibattito-istantaneo-vaccini-anti-covid-rapporto- lavoro-lopinione-adalberto-perulli/.

15 In https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=91784.

16 A. PERULLI, op. cit.

17 A. PERULLI, op. cit.

18 “Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli”, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le- interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro- subordinato.

19 F. SCARPELLI, Il rifiuto del vaccino non legittima di per sé il licenziamento, in https://www.collettiva.it/rubriche/consulta-giuridica/.

20 G. FALASCA, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in https://www.open.online/2020/12/25/coronavirus-licenziamento-dipendente-vaccino/.

21 D.L. giugno 2017, n. 73 (c.d. “Decreto vaccini” o “Decreto Lorenzin”), convertito con modificazioni in Legge 31 luglio 2017, n. 119.

22 A partire dalla Legge 6 giugno 1939, n. 891 sull’obbligo di vaccino contro la difterite alle dieci vaccinazioni obbligatorie previste dal D.L. n. 73/2017, conv. in L. n. 119/2017. Significative anche le Leggi 5 marzo 1992, n. 292 e 20 marzo 1965, n. 419 sull’obbligo di vaccinazione antitetanica per determinate categorie di lavoratori. La legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di bilancio 2021) dedica numerose disposizioni, a partire dal comma 457, al piano strategico nazionale dei vaccini, e detta misure di carattere amministrativo per la sua attuazione capillare, ma senza sancire l’obbligo individuale di vaccinazione.