Divieto di licenziamento in periodo emergenziale, principi costituzionali e diritto dell’Unione Europea: il caso spagnolo

Con una sentenza i cui effetti sono sicuramente destinati a travalicare i confini nazionali (n. 283 del 15.12.2020 consultabile qui) il Tribunale di Barcellona ha disapplicato, ritenendola incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, la disposizione nazionale introdotta dall’art. 2 del Real Decreto-Ley 27 marzo 2020 n. 9, successivamente prorogata, che prevede il divieto di licenziamento per motivi economici nel periodo di emergenza sanitaria legata al Covid -19.

Le misure introdotte dal Governo spagnolo per fronteggiare la crisi pandemica ricalcano in parte quelle adottate in Italia; in particolare, in favore delle imprese che per ragioni tecniche organizzative e produttive legate al Covid-19 abbiano subito una riduzione dell’attività lavorativa, è previsto l’esonero dei contributi previdenziali (del 100% per imprese fino a 50 dipendenti, del 75% con più di 50 dipendenti), nonché la possibilità di sospendere i lavoratori dal lavoro o di ridurre l’orario di lavoro, con contestuale intervento dello Stato, che garantisce al lavoratore il pagamento del 73% dello stipendio in godimento.

I datori di lavoro che beneficiano delle misure innanzi indicate si obbligano ad evitare licenziamenti per almeno sei mesi dal momento della ripresa dell’attività lavorativa; contestualmente, nelle ipotesi in cui tali misure intervengano, qualsivoglia ragione tecnica organizzativa produttiva o di forza maggiore non può ritenersi come giustificativa di un licenziamento “economico”.

Il Tribunale di Barcellona, chiamato a giudicare su un licenziamento di una lavoratrice per motivi economici intimato in pendenza di divieto, ha disapplicato la disposizione nazionale innanzi citata, ritenendola contraria sia rispetto all’art. 38 della Costituzione spagnola (secondo cui i pubblici poteri garantiscono e proteggono l’esercizio della libertà di impresa) , che all’art. 3 co. 3 del Trattato dell’Unione e all’art. 16 della Carta di Nizza, in quanto l’economia di mercato che tali disposizioni intendono assicurare presuppone la protezione bilanciata sia del diritto all’occupazione che della libertà di impresa. Con la conseguenza che le limitazioni imposte dai pubblici poteri alla libertà di impresa (ivi compreso il divieto di licenziamento) reiterate nel tempo, non possono spingersi sino a svuotarla di contenuto, inibendo all’imprenditore di adottare le misure ritenute necessarie alla salvaguardia dell’azienda.

Punto centrale della decisione riguarda la mancanza di temporaneità della misura, reiterata nel tempo in maniera incondizionata, sì da perdere il carattere della eccezionalità, con la creazione di una sorta di  stato di “emergenza permanente”, peraltro non idoneo a mantenere i livelli occupazionali, posto che comunque, nel periodo emergenziale, si è verificato in ambito europeo un rilevante calo dell’occupazione, soprattutto femminile.

Come correttamente evidenziato dalla dottrina anche con riferimento alla situazione italiana, il divieto di licenziamento ormai vigente in Italia dal mese di maggio 2020 (allo stato sino al 31 marzo 2021, salve ulteriori proroghe) può ritenersi compatibile con i principi costituzionali (art. 41, co.2, Cost. ) e con la normativa dell’Unione solo in quanto circoscritto ad un periodo temporale limitato, strettamente legato ad una situazione di effettiva emergenza. Le continue proroghe al divieto, peraltro nell’esperienza italiana con disallineamenti temporali rispetto all’intervento della cassa integrazione, ne snaturano viceversa il carattere di misura eccezionale, così alterando il bilanciamento tra il valore del lavoro e quello dell’impresa ed aprendo il varco a pericolose torsioni decisionistiche da parte dello Stato.