Le libertà di manifestazione del pensiero degli alunni e la latitudine del dovere di controllo dell’insegnante: il caso dell’accostamento del decreto “Salvini” alle leggi razziali

  1. Il caso

Il caso è noto per aver animato il dibattito politico lo scorso anno. Una docente di un istituto superiore di Palermo era stata destinataria del provvedimento disciplinare della sospensione dal servizio per giorni quindici, ai sensi dell’art. 495 del D.lgs. n. 297/1994 “per aver omesso di controllare prodotti multimediali realizzati dai suoi alunni, prima della socializzazione ad altri studenti, al fine di verificare se il messaggio trasmesso fosse coerente e non travisabile da ragazzi di età adolescenziale”.

Gli alunni della docente avevano infatti proceduto durante le celebrazioni della giornata della memoria del 2019, a realizzare un lavoro in power point, accostando le leggi razziali del 1938 al Decreto Sicurezza sull’immigrazione, noto come decreto “Salvini”.

All’esito di un’analitica e approfondita istruttoria, il Tribunale di Palermo, sezione lavoro (G.L. Fabio Civiletti),con sentenza n. 3907/2020, pubblicata il 14 dicembre 2020, ha accolto il ricorso dell’insegnante, annullando la sanzione disciplinare e rigettando la sola domanda di risarcimento per la lesione della reputazione personale e professionale, poiché si trattava di condotte imputabili agli autori di alcuni post sui social network e non all’istituzione scolastica.

La decisione si segnala per molteplici profili di interesse, inerenti la latitudine del dovere di controllo dell’insegnante e la libertà di manifestazione del pensiero degli studenti in ambito scolastico.

  • La condotta oggetto di censura

Rigettata la preliminare eccezione di genericità della contestazione disciplinare, la sentenza affronta il primo nucleo della contestazione mossa alla docente, ossia l’aver orientato gli alunni nella preparazione del materiale e, dall’altro, l’omesso controllo, prima della divulgazione in ambito scolastico, dei contenuti dell’elaborato, forieri di un’interpretazione distorta della realtà storica.

Il giudice, ascoltati alcuni testimoni, ha accertato che l’insegnante aveva suggerito la sola la lettura di un testo (il romanzo di Lia Levi); tale indicazione rientrava pertanto nella libera espressione culturale del docente, corollario della libertà di insegnamento riconosciuta dall’art. 33 Cost.

Gli studenti hanno poi visto un programma televisivo e letto altri libri. Sicché la docente si era limitata a fornire indicazioni metodologiche per la ricerca, mentre le immagini inserite nel filmato erano state selezionate dagli alunni, senza alcun subdolo condizionamento delle opinioni degli allievi ai fini di una indotta interpretazione della realtà storica.

Il Tribunale ha quindi concluso che l’insegnante non aveva “posto in essere attività di indirizzo, ispirazione, condizionamento, indottrinamento degli studenti per indurli alle conclusioni rappresentate nell’elaborato multimediale prodotto”.

  • L’omesso controllo sull’elaborato degli alunni

Dopo aver escluso l’indebito condizionamento ideologico, il Tribunale esamina funditus la questione del controllo dell’insegnante sul contenuto dell’opera degli alunni.

Il punto di partenza è che il video realizzato dagli studenti costituiva un lavoro scolastico non destinato alla pubblica divulgazione, avendo la sola funzione di animare il dibattito fra gli studenti dell’istituto sul tema trattato.

L’opera, pertanto, non costituiva espressione dell’insegnamento della docente, ma il frutto della libera elaborazione da parte degli alunni delle conoscenze apprese. Esso veicolava un’interpretazione personale degli eventi storici, che – pur se discutibile sul piano storico-critico -rappresentava esclusivamente la manifestazione del convincimento e delle opinioni degli alunni, che ne sono stati autori.

Il Tribunale verifica poi se il sia pure ardito accostamento di fatti storici sia addebitabile a una condotta illecita della docente.

La sentenza approfondisce a questo punto il contenuto e i limiti del dovere di vigilanza e di controllo dell’insegnante sull’attività degli alunni e i suoi limiti, ossia se possa estendersi al contenuto degli elaborati svolti dai medesimi nel corso dell’attività scolastica.

Secondo il Tribunale di Palermo, l’obbligo di vigilanza e di controllo dei docenti trova fondamento normativo nell’art. 2048, comma 2, c.c. ove si prevede che “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.

La latitudine dell’obbligo di controllo di precettori e insegnanti è ben precisa: gli alunni non devono porre in essere fatti illeciti produttivi di danno, che i primi hanno il dovere di impedire.

Secondo il Tribunale “un elaborato di ricerca svolto dagli alunni durante l’attività scolastica costituisce una delle forme di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero garantita costituzionalmente dall’art. 21 Cost. (tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione) ed i cui limiti sono costituiti dal rispetto delle norme penali e dal buon costume”.

Il controllo del docente, alla luce dell’art. 2048 c.c., deve essere, quindi, diretto a ricercare  espressioni costituenti reato o contrarie al buon costume, nella ristretta accezione recepita dalla giurisprudenza penale.

Ma nel caso concreto, l’elaborato multimediale confezionato dagli allievi, pur presentando approssimazione nel paragone tra eventi storici del passato e quelli della storia recente, non integrava alcun illecito penale, essendo invece caratterizzato da contenuti pacati e continenza verbale.

  • La libertà di manifestazione del pensiero

Scendendo in medias res, il giudice analizza il contenuto del D.P.R. n. 249/98 (statuto dei diritti degli studenti e delle studentesse della scuola secondaria), rimarcando che lo stesso costituisce attuazione, nell’ambito della comunità scolastica, dei principi di cui agli artt. 2 e 21 della Costituzione.

L’art. 1 del citato D.P.R. prevede all’art. 1, comma 4, che: “la vita della comunità scolastica si basa sulla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono, quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale.

Ne deriva, secondo il giudice palermitano, che “una condotta del docente volta ad impedire che le conclusioni, sia pur opinabili, manifestate dagli studenti nell’elaborato multimediale realizzato, venissero rese note nell’ambito della comunità scolastica cui erano originariamente destinate, si sarebbe posta in contrasto con tali princìpi. Le stesse, infatti, dovevano ricondursi al legittimo esercizio del diritto di critica, che costituisce una delle espressioni della libertà di manifestazione del pensiero”.

Il contenuto dell’elaborato è altresì espressivo del diritto di critica che, quale manifestazione della propria opinione, “non può essere totalmente obiettivo e può manifestarsi anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente”. Il che induce il Tribunale a ritenere che “i contenuti espressi dall’elaborato degli studenti, anche se non condivisibili sul piano del giudizio storico, [fossero] pienamente aderenti a tali canoni e come tali non [presentassero] alcun profilo di illiceità”.

Vi è poi che l’art. 1 del D.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (T.U. delle leggi sull’istruzione) stabilisce che “ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”; l’esercizio di questa libertà è diretta a promuovere la piena formazione della personalità degli alunni, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali; è garantita l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca.

Ad avviso del giudice del lavoro, proprio la formazione della personalità degli alunni deve avvenire attraverso un confronto aperto di posizioni culturali e la proiezione del video ne è stata certamente occasione al di là del suo contenuto pur opinabile.

Il Tribunale considera poi generica la contestazione secondo cui la docente abbia “operato in modo superficiale, perché non ha tenuto conto della portata dell’azione didattica intrapresa”, trattandosi non di fatto, bensì di un inammissibile giudizio valutativo.

Rigetta infine la domanda di risarcimento del danno ulteriore in quanto i commenti di cui l’insegnante  è stata destinataria sui c.d. social networksono da attribuire alla piena ed esclusiva responsabilità dei rispettivi autori e ad esse del tutto estranea l’Amministrazione che ha adempiuto ai propri obblighi istituzionali”.