Licenziamento nullo se intimato in violazione della moratoria anche per gli assunti dopo il 7 marzo 2015: continua la rottamazione del Jobs Act

1 Un esito (più o meno) certo

Una sentenza – almeno apparentemente – ovvia quella del Tribunale di Mantova n. 490 del 11 novembre 2020 (v. https://www.lpo.it/banca-dati/ ), che ha dichiarato la nullità del recesso per g.m.o. intimato in violazione del divieto generalizzato di licenziamento introdotto a seguito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.

La sentenza afferma tuttavia molto più di quanto si possa leggere.

2. Il prologo: dal Decreto “Cura Italia” alla “Legge di Bilancio”

L’art. 46 del D.L. n. 18/2020, c.d. Decreto “Cura Italia”, convertito in L. n. 27/2020, aveva originariamente stabilito che per sessanta giorni, decorrenti dall’ entrata in vigore del decreto, «il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».

Il primo termine al divieto di licenziamenti sarebbe dunque scaduto il 17 maggio 2020.

Il Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34, c.d. Decreto “Rilancio”, sostituiva poi all’art. 46 del Decreto “Cura Italia” le parole «60 giorni» con «5 mesi» chiarendo che «Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604

Il secondo termine sarebbe scaduto il 17 agosto 2020.

Il D.L.  14 agosto 2020, n. 104, ha poi stabilito che «resta, altresì, preclusa» la facoltà di licenziare per g.m.o. «Ai datori di lavoro che non  abbiano  integralmente  fruito  dei trattamenti di  integrazione  salariale  riconducibili  all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero  dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto».

Non vi sarebbe stato però il blocco dei licenziamenti ove la società fosse fallita ovvero cessasse la propria attività ovvero vi fosse un accordo collettivo aziendale.

Il terzo termine sarebbe stato dunque variabile: scadenza del divieto alla fine dell’esonero contributivo per le imprese che avessero beneficiato della CIG Covid-19 e scadenza fino alla fine delle ulteriori 18 settimane di CIG previste dal nuovo decreto per le imprese che ne avessero fatto richiesta; scadenza fino al 31 dicembre 2020 per le imprese che non avessero fatto ricorso ai due trattamenti precedentemente menzionati.

Il Decreto legge 28 ottobre 2020 n. 137 ha recentemente stabilito che fino al 31 gennaio 2021 «resta, altresì, preclusa al  datore  di  lavoro,  indipendentemente  dal  numero  dei dipendenti, la facoltà di recedere dal  contratto  per  giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresi’ sospese  le  procedure  in  corso  di  cui all’articolo 7 della medesima legge»

Il penultimo termine al divieto è dunque tornato ad essere generalizzato: per tutte le imprese fino al 31 gennaio 2021.

A meno di colpi di scena la nuova Legge di Bilancio sembrerebbe ulteriormente prorogare il divieto di licenziamento al 31 marzo 2021.

3. Conseguenze sanzionatorie

Il Decreto Cura Italia però non esplicitava le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione della moratoria.

L’art. 46 è tuttavia una norma imperativa finalizzata a mitigare sul piano sociale gli effetti causati dal COVID-19.

Una norma imperativa si identifica sulla base della assoluta incompatibilità del comportamento dei destinatari con l’interesse pubblico tutelato dal legislatore.

Come affermato dallo stesso Tribunale di Mantova, pertanto, sebbene il Decreto Cura Italia non avesse espressamente previsto la nullità dei licenziamenti economici intimati in caso di sua violazione, la mancanza della sanzione non sarebbe di per sé determinante ai fini della impossibilità di qualificare come nullo il recesso, poiché l’art. 1418 c.c., comma 1, esprime un principio generale volto a sopperire proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non segue una previsione esplicita di nullità, c.d. «nullità virtuale».

Orbene, se per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 il licenziamento intimato in violazione dell’art. 46 sarebbe stato certamente «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge», ai sensi dell’art. 18 St. Lav., la stessa certezza non si avrebbe avuta nel caso degli assunti dopo tale data, poiché l’art. 2 D.Lgs. n. 23 del 2015 richiede «nullità espressamente previsti dalla legge».

Ed è proprio questo il punto interessante della sentenza in esame: la ricorrente era stata assunta in data 10.05.2018.

4. Gli assunti dopo il 7 marzo 2015

Sebbene l’art. 46 sia indubbiamente una norma imperativa, le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sua violazione avrebbero potuto essere differenziate sulla base dell’assunzione dei lavoratori, determinando l’esclusione della reintegrazione per gli assunti dopo il 7 marzo 2015: il legislatore emergenziale non aveva infatti “espressamente” chiarito la sanzione da dover applicare.

La formulazione «espressamente previsti dalla legge» ben avrebbe potuto allora escludere le nullità virtuali di cui all’art. 1418, comma 1, c.c. dal proprio ambito di applicazione, avendo il legislatore del Jobs Act volutamente circoscritto il raggio d’azione dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 ai soli casi di nullità testuale,  ex art. 1418, comma 3, c.c. ovvero, tutt’al più, alle nullità strutturali, ex art. 1418, comma 2.

D’altro canto l’avverbio “espressamente” avrebbe potuto anche postulare la volontà di sintetizzare tutte le fattispecie precedentemente elencate dall’art. 18, comma 1, St. lav., la cui formulazione risultava eccessivamente estesa a seguito delle modifiche apportate dalla Riforma Fornero.

Non bisogna infatti dare troppo adito alle parole utilizzate dal legislatore del Jobs Act, intervento rottamatore del precedente  art. 18 St. Lav., se nel corso del tempo è stato a sua volta rottamato dalla giurisprudenza.

Si pensi ad esempio all’epilogo che ha avuto l’aggettivo «materiale», riferito all’insussistenza del fatto dall’articolo 3, D.Lgs. n. 23/2015, finito con l’essere interpretato nello stesso identico modo dell’art. 18 St. Lav., secondo cui il fatto deve essere valutato nella sua giuridicità (Cass. 8 maggio 2019, n. 12174).

Si pensi invece proprio alle famose tutele crescenti dichiarate incostituzionali dalla nostra Consulta per aver il legislatore trattato medesime situazioni in modo differente (C. Cost. n. 194/2018 e C. Cost. n. 150/2020).

Non si può allora che concordare con la sentenza del Tribunale di Mantova.

Se l’idea originaria del Jobs Act, con la Legge Delega n. 183/2014, era quella di «limitare il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», appare evidente come dalla violazione dell’art. 46 possa solamente derivare la nullità del licenziamento nei confronti di tutti i lavoratori.

La sentenza in esame si inserisce dunque perfettamente in quella giurisprudenza rottamatrice dell’intervento rottamatore dell’art. 18 St. Lav.