Sulla legittimità dei c.d. “appalti leggeri”
Come da definizione contenuta nel Codice Civile (cfr. art. 1655 Cod. Civ.), con il termine “appalto” si intende l’impegno contrattuale a realizzare un’opera – od anche un servizio – attraverso un’organizzazione di mezzi e di risorse umane, in relazione alla quale il rischio imprenditoriale ricade unicamente su chi assume questo impegno (c.d. “appaltatore”) e non già su chi commissiona l’opera (c.d. “committente”).
Talvolta, però, può capitare che l’opera da realizzare si sostanzi in un servizio completamente de-materializzato e che, quindi, l’appalto implichi esclusivamente l’impiego di risorse umane e non anche di mezzi (si pensi, ad esempio, alla realizzazione di software informatico o di un servizio di c.d. “back-office”). In questi casi, che non rispecchiano propriamente la definizione codicistica, può l’appalto dirsi genuino oppure si incorre in un’ipotesi di intermediazione illecita di manodopera, di fronte alla quale il lavoratore illegittimamente impiegato nell’appalto può addirittura chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro nei riguardi del committente?
Per rispondere a tale domanda, i Giudici della Suprema Corte di Cassazione, in un recente caso (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 14371/2020), hanno affermato che ben possono capitare ipotesi in cui l’appaltatore, per realizzare l’opera commissionata, impieghi soltanto personale dipendente e non anche beni “materialI”: tale è l’ipotesi dei c.d. “appalti leggeri”, intendendosi per tali quegli appalti “in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro”.
In questa ipotesi, a detta del Supremo Collegio, per statuire se l’appalto è genuino, “è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti”; diversamente, ossia nelle ipotesi di “appalti pesanti”, caratterizzati dalla presenza di mezzi oltreché di risorse umane, dovrà essere valutato anche a chi spetti la titolarità e l’organizzazione di quei medesimi mezzi (unitamente, s’intende, alla gestione del personale).
Invero, quello dianzi ricordato rappresenta un principio che la medesima Suprema Corte ha già avuto modo di sancire in altra sede e con riferimento ad un appalto avente ad oggetto “attività di vendita, informazione, call center”, affermando che “gli strumenti e le macchine forniti dall’appaltante non sono elementi di per sé decisivi per la qualificazione del rapporto lavorativo in termini di appalto o interposizione fittizia di manodopera, ben potendo l’appaltatore ‘mettere a disposizione la sua professionalità a prescindere dalla proprietà di macchine ed attrezzature’” (cfr. Cass. Civ. , Sez. Lav., sentenza n. 21413/2019).
Insomma, per i Giudici di legittimità non v’è una definizione preconfezionata di appalto genuino, dovendo “l’organizzazione” dei mezzi e delle risorse umane destinati all’appalto, vero ed unico indice di liceità dell’appalto, essere raffrontata con le concrete esigenze dell’opera dedotta in contratto, ovverosia alla effettiva tipologia di attività commissionata e svolta.