Licenziamento indotto dal lavoratore: il c.d. “ticket licenziamento” grava su quest’ultimo

Nella prassi capita di assistere a vere e proprie “richieste di licenziamento” sottoposte dai lavoratori ai propri datori di lavoro.

I motivi, soprattutto dopo numerosi anni di lavoro alle dipendenze della medesima società, possono essere i più disparati: dedicarsi ad altre attività, anche non lavorative; sperimentare nuovi campi professionali; etc.

Unico è, invece, è il fine di tali richieste, ossia ottenere la c.d. “NASpI”, vale a dire l’indennità di disoccupazione prevista dal d.lgs. n. 22/2015.

Come noto, infatti, tale indennità viene erogata a fronte di un comprovato “stato di disoccupazione” (cfr art. 3, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 22/2015), da intendersi come perdita “involontaria” del posto di lavoro precedentemente ricoperto (cfr. punto n. 7, Circ. INPS n. 142 del 29 luglio 2015).

Ciò detto, se è certamente “involontaria” la perdita del posto di lavoro scaturita da un atto di licenziamento “puro”, ossia voluto esclusivamente dal datore di lavoro (anche se per c.d. “giusta causa” e, quindi, se determinato da un grave inadempimento del lavoratore), non è “involontaria”, invece, la perdita dell’occupazione determinata da un atto di licenziamento che sia stato sollecitato dal dipendente: infatti, al di là della natura formale di questo atto e della sua altrettanto formale provenienza dal datore di lavoro, nella sostanza esso si è determinato per effetto di una volontà riconducibile al solo dipendente.

Da qui, in estrema sintesi, la “volontaria” perdita dell’occupazione.

Tali considerazioni, apparentemente scontate, non sempre emergono con il giusto peso nelle aule di giustizia, eccezion fatta per quelle della Sezione Lavoro del Tribunale di Udine.

Il Giudice udinese, infatti, è stato recentemente chiamato a pronunziarsi sul caso di un datore di lavoro che si era rifiutato di licenziare un proprio dipendente, dietro esclusiva richiesta di quest’ultimo, per consentirgli di beneficiare della NASpI. Al rifiuto del datore di lavoro era seguita un’immotivata assenza del dipendente dal posto di lavoro, nonché una parziale esecuzione della propria prestazione lavorativa nei giorni di effettiva presenza in servizio (si trattava di sostituzione e manutenzione di caldaie).

A fronte di questi reiterati inadempimenti, il datore di lavoro – secondo la ricostruzione fornita dal Giudice del Lavoro – è stato letteralmente costretto a licenziare il dipendente per giusta causa, attesi anche i danni (mancato guadagno e lesione dell’immagine) cagionati dall’indebita condotta tenuta dal lavoratore.

Successivamente, il lavoratore ingiungeva al datore di lavoro il pagamento di alcune differenze retributive, in parte determinatesi per effetto di alcune compensazioni operate dal datore di lavoro, direttamente in busta paga, tra i danni cagionati dal dipendente ed il trattamento economico vantato da quest’ultimo. Il decreto ingiuntivo veniva, poi, opposto dal datore di lavoro, il quale domandava al lavoratore anche il rimborso del c.d. “ticket licenziamento”, ossia di quel contributo (quantificato, per il 2020, in massimo € 1.509,90), che ciascun datore di lavoro è tenuto, per legge, a pagare in caso di licenziamento, a qualunque titolo esso venga intimato.

Difatti, non era intenzione del datore di lavoro licenziare il dipendente e tale determinazione si è resa necessaria solo a fronte di un comportamento che il lavoratore ha deliberatamente tenuto dopo che il datore di lavoro si era rifiutato di assecondare la sua richiesta di licenziamento.

Ebbene, con sentenza n. 106/2020, il Tribunale di Udine, pur respingendo la compensazione in busta paga operata dal datore di lavoro (per difetto di prova dei danni subiti), poneva comunque il costo del c.d. “ticket licenziamento” a carico esclusivo del dipendente: questo ticket, infatti, è “un onere che la [Società] ha dovuto sopportate esclusivamente perché il [Lavoratore], anziché dimettersi, senza costi per l’azienda, l’ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo”.

Il ragionamento è chiaro: l’azienda doveva essere tenuta indenne da costi che mai si era intesa accollare.

A parte vi sono, poi, i possibili discorsi che pure si potrebbero fare in merito al fatto che un licenziamento “concordato” al solo fine di garantire al dipendente la fruizione della NASpI possa configurare una truffa allo Stato: le parti, infatti, creano – per così dire – “a tavolino” le condizioni di legge per beneficiare di questa misura puramente assistenziale.

https://sites.google.com/marascofirm.com/marascolawfirm/home